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Peppino Strippoli, che con la cucina a Milano faceva onore alla Puglia Ricordi

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Di Franco Presicci:

A Milano lo conoscevano tutti, o quasi, Peppino Strippoli. Sono una flotta nel capoluogo lombardo gli amanti della cucina pugliese e molti erano calamitati da quei piatti. Il pittore Filippo Alto, barese doc, frequentava Strippoli per amicizia, non per gustare i suoi piatti, perché quelli glieli preparava la moglie, Ada, che anche tra i fornelli è una regina. Eppure qualche volta anche lui rimaneva incollato a uno di quei tavoli
Gli amici del “barese”, come lo indicavano tanti suoi “fans”, erano quasi tutti “vip”, tra cui Paolo Grassi, il sindaco Carlo Tognoli, Salvatore Quasimodo… Chchele Iacubino, proprietario del ristorante “La Porta Rossa”, che era di Apricena, in provincia di Foggia e non dimenticava mai l’amore di Federico II per la sua città, lo riteneva un pugliese che faceva onore alla sua terra.
Sono molti quelli che hanno conosciuto il capoluogo pugliese, visitandolo, apprezzando anche l’ospitalità e la stessa gente, oltre ai paesaggi Altri l’hanno conosciuta grazie alle parole di Strippoli. Il famoso ristoratore, oltre a servire pietanze che allettano il palato, a volte esaltava la sua città, che vanta il lungomare più lungo del Paese: Bari, appunto, con le sue glorie. Naturalmente non mancava di celebrare le virtù di questo e di quel vino, non escludendo i nettari di Martina Franca, Locorotondo, Manduria. “Mio caro Filippo, ti ricordi che cosa diceva Maro Soldati nel suo libro ‘Vino al Vino’? Si trovava prorio nella città dalle case incappucciate e affermò che il Sud, per quanto riguarda l’aspetto enologico, non è inferiore alla Toscana e al Piemonte”. Alto annuì. Conosceva la materia.
E alla bevanda alcolica mi piace aggiungere un particolare: una sera nel suo supermercato del vino a Saronno allestì un suggestivo atto di teatro con protagonista la vendemmia. In un tino enorme quattro o cinque fanciulle botticelliane pigiarono l’uva con i piedi nudi, con il ritmo del contadino nel palmento. Lui, comodamente seduto a un tavolo assieme a un grosso personaggio del cinema, sprigionava la sua rabbia contro quelli che vendono il vino nei cartoni e non in bottiglia. E sollecitava il parere dell’interlocutore, anche se lui era fortemente convinto della propria opinione.
Dello stesso parere era Chechele, che come ristoratore non aveva maestri. “Il vino nel cartone? È una vergogna”. L’ex comandante di jumbo Paolo De Barros, un signore distinto e buon conoscitore di vini (era socio di un club molto ben frequentato), condivideva il parere del pugliese. Un pugliese colto, dinamico, pieno di idee, legato alla sua regione come pochi. Mario Dilio, che era stato a Milano per parecchi anni come capo ufficio stampa dell’Alfa Romeo, meridionalista apprezzato, autore di libri e membro nel direttivo dell’Associazione pubbliche relazioni (negli anni ‘60 era tornato al nido), salito a Milano per ragioni di lavoro, andò a cenare alla “Porta Rossa”, invitando Filippo Alto e il sottoscritto. E conversando del più e del meno, presente Michele Jacubino, disse di aver letto da qualche parte che una celebrità aveva dichiarato pubblicamente di aver conosciuto Bari prima attraverso le parole di Strippoli e la sua cucina e poi in una visita alla città. Filippo Alto confermò: e fece un nome.
Filippo conosceva bene Peppino Strippoli, che a volte la domenica passava da casa sua, in via Calamatta (proprietario un altro pugliese, il grande sarto Guglielmo Miani, di Andria, che aveva ospitato in casa sua Filippo di Edimburgo, era stato premiato con l’Ordine della Giarrettiera dalla regina Elisabetta e quando nel suo negozio di via Manzoni entrava un giornalista gli regalava una cravatta. Strippoli dal pittore faceva visite brevissime: e giacché si trovava, assaggiava un paio di polpette ancora bollenti. Gliele offriva Ada, la signora Alto, sempre gentile e ottima padrona di casa.
Una sera Filippo mi disse che Strippoli non era di Bari, bensì di Cerignola, ricordando che non aveva aperto soltanto un regno di odori e di sapori, “’Ndèrr’a la Lanze”, vicino all’Università Statale e alla Libreria Universitaria di Aldo Cortina, pittore bellunesee cresciuto alla scuola di De Pisis. Aveva aperto un locale dietro l’altro. Spesso i suoi menù prevedevano patate, riso e cozze oppure orecchiette, golosità per personaggi come Vincenzo Buonassisi, inviato del “Corriiere della Sera” e gastronomo; Mario Azzella, giornalista e documentarista della Rai, di Trani; Edoardo Raspelli, giornalista, critico gastronomico severo, conduttore televisivo… Grande Edoardo. Lo chiamo al telefono e lui mi fa un’efficace sintesi del personaggio: “Peppino Stripoli? Poche parole: un pugno di sillabe che mi danno emozione e commozione. Un cognome, un’insegna che appartengono alla storia di Milano (e non solo quella gastronomica) e alla mia personale”. Nel 1975, esortato da Cesare Lanza, direttore de ‘Il Corriere d’Informazione’, edizione pomeridiana del ‘Corriere della Sera’, inventai la critica gastronomica dando voti anche negativi ai ristoranti. Lo incalzo, e lui: “Scoprivo la cucina pugliese, il calore umano della ristorazione a Milano che ero ancora un ragazzo. Facevo i miei sette esami all’Università Statale; dal ‘71 lavoravo in cronaca, andavo a mangiare con la mia fidanzata poi diventata mia moglie nella ghiotta, succulenta semplicità in un dei regni del pesce a Milano, la reggia del panzerotto e delle orecchiette. Peppino Strippoli e il suo ‘’Ndèrre a la lànze’, Chechela e Nennella e la loro ’Porta Rossa’ erano sinonimo di calore umano, di familiarità in una città travolta nei terribili anni 70, gli anni di piombo”.
Oggi forse sono in pochi a ricordarlo, Peppino Strippoli. Dagli anni Cinquanta e Ottanta del secolo scorso volato via come una farfalla trascinata dal vento ne è passato, di tempo, e la gente fa presto a dimenticare. Il questore Vito Plantone. di Noci, amante della buona tavola, sì che se lo ricordava, anche se forse non è mai andato a mangiare in uno dei suoi templi della squisitezza. Come sicuramente se lo ricordava Dino Abbascià, l’imprenditore della frutta nato a Bisceglie, che nel capoluogo lombardo aveva creato un’ammiraglia, anche portando per primo i prodotti esotici e aperto anche la “Boutique della frutta” a due passi da piazza della Repubblica.
Parlando di Strippoli in un ristorante di Porta Romana, Abbascià, mi disse che era un grande sostenitore del nostro vino, di cui sapeva esporre i pregi. Esplorava nelle masserie dei nostri paesi alla ricerca del vino genuino: a Martina Franca, a Noci, a Crispiano, dove di masserie ce ne sono cento, illustrate in un volume sapientemente curato da Michele Annese, quando dirigeva la biblioteca, dotata tra l’altro del Centro Montaliano. Il pugòese fu anche a Locorotondo, il cui nettare finì nelle pagine di “Vino al vino” di Mario Soldati.
Insomma Peppino Strippoli era uno di quei nostri conterranei che al Nord hanno ben rappresentato la propria città, dimostrando abilità, intelligenza, “savoir faire”, schiettezza. Annibale Del Mare, giornalista e scrittore,capo ufficio stampa, all’epoca, del governo Badoglio e inviato della “Gazzetta del Mezzogiorno”, qualche giorno prima della pubblicazione di un suo libro con la Celip di Nicola Partipilo, barese anche lui, nella libreria di viale Tunisia, ormai chiusa, mi parlò di Peppino Strippoli e si disse meravigliato del fatto che non se ne parlasse più. Del Mare nei locali di Strippoli c’era stato parecchie volte; e magari vi aveva incontrato anche Luigi Veronelli, esperto di cibi e di vini, che a Bergamo Alta aveva una ricca cantina personale. Veronelli scriveva nelle pagine de “Il Giorno” articoli “lirici” ed era una persona coltissima, alla mano, generosa, grande estimatore di Peppino e di Edoardo Raspelli, che da gastronomo supercollaudato passava, e passa ancora, la vita fra cascine, viti, caseifici, delizie di campagna, mostrandoli in televisione, su “La Stampa”…
C’è tanto da dire su Strippoli. Una sera si vide il locale invaso dalla compagnia del Bolscioi, che si esibiva alla Scala e lui elettrizzato mise in tavola le prelibatezze più appetibili, compreso il capocollo della Valle d’Itria. A proposito, che gioia ricordare le mozzarelle di Gioia del Colle, che un garzone vendeva in stazione all’arrivo dei treni. “Mozzareleee!”, urlava, e lo scambio tra il denaro e la ghiottoneria passava per i finestrini. Quella voce è sparita. E quasi nessuno la ricorda. “Le mozzarelle di Gioia del Colle, sì… ne ho assaporate tante facendo la spola fra Milano e Taranto sui convogli-lumaca”, esplose un amico birichino, perché lui a quei tempi non era ancora nato. Ma questa è un’altra storia.
Mi piacciono le deviazioni, come quelle dei treni in vista degli scambi o della piattaforma girevole per mutare senso di marcia. Peppino Strippoli non me ne voglia. Dove lui si trova adesso si ha forse più comprensione. E poi scivolare da un argomento all’altro per pochi secondi è peccato veniale. Grave è aver chiuso il libro di un illustre anfitrione. Nella memoria di alcuni Peppino Strippoli è ancora presente. Come lo sono Dino Abbascià e Filippo Alto, Vito Plantone e il sindaco Carlo Tognoli, che la soglia di “Ndèrre a la lanze” la superavano.

(foto: da sinistra Nicola Vernola, Giuseppe Strippoli, Filippo Alto)


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