Di Marcello Cometti*:
La stampa libera può, naturalmente, essere buona o cattiva,
ma è certo che senza libertà non potrà essere altro che cattiva.
(Albert Camus)
Assai spesso noi giornalisti siamo accusati di essere una corporazione, stretta come un sol uomo in difesa dei propri (presunti) privilegi e dei suoi (ormai invero pochissimi) diritti di casta. L’accusa – se forse potrebbe aver avuto una base di fondamento sino al decennio scorso – risulta assolutamente fragile oggi, quando ogni certezza va franando giorno dopo giorno sotto i colpi della crisi, con quell’antica corporazione ridotta ad uno sparuto manipolo di coraggiosi che disperatamente tentano di venir fuori indenni dai sussulti e dagli scossoni di una professione ormai moribonda, quantomeno nelle forme e nelle articolazioni – e nelle guarentigie – alle quali eravamo abituati noi che abbiamo praticato quest’antichissimo mestiere dalla metà degli anni Cinquanta del Novecento e annate successive.
E allora la libertà di stampa che abbiamo conosciuto – o inseguito – noi dinosauri del secolo scorso, noi che gestimmo e vivemmo il passaggio dalla Lettera 32 al computer, non può assolutamente essere eguale alla libertà di stampa che si conosce – o si vagheggia – al giorno d’oggi. Perchè ieri i bilanci dei giornali erano floridi, gli incassi delle concessionarie pubblicitarie macinavano somme a nove zeri e i contratti che stipulavano con gli editori includevano sempre la comfort zone del “minimo garantito”: somme certe che entravano in cassa ogni mese, a prescindere dall’andamento del mercato. Anche le vendite procedevano a gonfie vele, con risultati in edicola che oggi sembrano un vero miraggio, un’entità numerica irraggiungibile e distante anni luce. Oggi in Italia si vende appena un quarto delle copie di quotidiani che si vendevano trenta anni fa. Dal 1990, anno del massimo storico delle vendite, con poco meno di 7 milioni di copie giornaliere, si è scesi oggi a 2 milioni. Un dato che mostra mese dopo mese un trend costantemente in discesa. E come ricorda il 52° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese (2018), la quota di italiani che fanno a meno dei mezzi a stampa nella propria dieta mediatica è salita a quasi la metà della popolazione (precisamente, il 47%). Il 20,8% della popolazione legge i quotidiani online e il 34,3% i siti web d’informazione.
Con questo voglio sostenere la tesi che per la mia generazione è stato (o sarebbe stato) più facile battersi per la libertà di stampa: non solo perchè i bilanci erano più floridi ma anche perchè nel panorama della stampa italiana almeno sino ad un certo punto storico la maggioranza dei proprietari di giornali era fatta da editori “puri”: i Mondadori, i Rizzoli, i Rusconi, i Caracciolo, l’accoppiata Gorjux-Romanazzi che gestiva la Gazzetta del Mezzogiorno e il Mattino, e via dicendo. Editori che, in linea di principio, guardavano ai bilanci e solo ai bilanci, magari destreggiandosi abilmente fra le varie correnti politiche dominanti, magari facendo qualche “favore” a grandi imprenditori per ingraziarsene le campagne pubblicitarie, ma in fondo restando comunque editori-editori. E’ fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta che lo snaturamento si consolida e si completa, quando il Padrone entra in redazione, per citare il titolo dell’imperdibile pamphlet scritto da Giorgio Bocca nel 1989 per Sperling&Kupfer. E ci si accorge che il Padrone ha cambiato pelle, perchè non è più un editore o solo un editore, ma un soggetto che ha interessi nei vari settori del mondo economico e produttivo del Paese. “Magari in quegli anni – scrive Bocca – fossimo stati capaci di difendere meglio la libertà di stampa! Sarebbe servito, in un Paese dove c’è stato un solo politico, il liberale Luigi Einaudi, a proporre che nella Costituzione fosse integralmente riportato il primo emendamento di quella americana: “La stampa è libera”… Ma da noi, di comune e immediato accordo, comunisti, democristiani, socialisti e persino liberali decisero di trapiantare nella repubblica democratica la legge fascista sulla stampa, legge vessatoria che dà a chi si sente diffamato facoltà di querela senza facoltà di prova”.
Problema, questo, rimasto apertissimo anche ai giorni nostri: da noi il sistema politico e quello affaristico hanno il vizio di usare l’arma delle querele come minaccia e la richiesta di risarcimenti esorbitanti e sproporzionati rispetto all’eventuale danno ricevuto per scoraggiare i cronisti, i direttori e gli editori e per renderli più gentili e «distratti». Quel che voglio dire è che oggi un cocktail micidiale concorre a restringere sempre più i margini di una vera libertà di stampa: gli editori perseguono i propri fini, dettando la linea e intervenendo anche in maniera brutale dentro le redazioni (l’ultimo episodio registrato a Repubblica parla chiaro, con la nuova proprietà made in Torino che dà il benservito al direttore Verdelli dalla sera alla mattina, e appena un anno orsono aveva fatto lo stesso col direttore Calabresi); la crisi delle vendite in edicola sembra inarrestabile e non è nemmeno lontanamente bilanciata dall’incremento dell’online; gli introiti pubblicitari si sono ridotti drasticamente (e la mazzata finale l’ha data la pandemia da Covid-19); la forza lavoro è calata paurosamente (negli ultimi dieci anni oltre 3500 giornalisti sono stati espulsi dal mercato del lavoro facendo ricorso agli ammortizzatori sociali previsti dalla legge 416 sugli stati di crisi); ultimo elemento, ma non certo per ordine d’importanza, va incrementandosi il tasso di tracotanza e di senso d’impunità raggiunto da alcuni esponenti politici, ben imitati in questo da ben individuabili frange dell’estremismo di ultradestra e da clan criminali che mal digeriscono l’attività giornalistica tesa a svelare i loro affari fuorilegge (emblematiche le vicende dei Casamonica a Roma e le loro aggressioni a cronisti).
Tutte queste valutazioni elencate in ordine sparso e probabilmente in modalità confusionaria concorrono a delineare un quadro di grande proccupazione per lo stato di salute della libertà di stampa. Giornalisti tenuti costantemente sotto il giogo del ricatto occupazionale ben difficilmente troveranno la forza e la voglia di battersi sempre e comunque per essere liberi; nella migliore delle ipotesi saranno tentati di girare la testa dall’altra parte, o di far finta di non vedere, o si limiteranno a pubblicare le “veline” che copiosamente giungono ogni giorno in redazione dai vari poteri – più o meno forti – che stringono d’assedio i giornali. Forse l’unica chance di coltivare l’orticello della libertà di stampa e di non lasciarlo avvizzire è allora proprio quello del giornalismo online: un giornalismo fatto di strumenti leggeri, poco costosi, pervasivo perchè diffuso attraverso il web, capace di reggersi su gambe proprie o comunque non costretto a far affidamento ad un editore-padrone, sorretto da investimenti pubblicitari che non ne condizionino pesantemente i contenuti. Amaro paradosso: il giornalismo 2.0 che soffoca nella culla i paludati custodi della libertà di stampa (i giornali tradizionali) e che alla fine diventa esso stesso ultimo baluardo proprio di quella libertà. E’ un po’ il principio del rasoio di Occam, alla fine: se hai un problema e disponi di svariate ipotesi, scegli sempre quella più semplice. Lineare, no?
* Giornalista