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Filippo Alto, che dipingeva la Puglia con amore Ricordi

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Di Franco Presicci:

Una volta c’era un artista che dipingeva la Puglia con amore. Si chiamava Filippo Alto ed era nato a Bari. Viveva a Milano in via Calamatta, quando lo conobbi, in una villetta di proprietà di un altro grande della nostra terra: Guglielmo Miani, che da umile sarto si era fatto un nome prestigioso nel capoluogo lombardo. Acquistava stoffe pregiate dall’Inghilterra e vestiva soprattutto uomini di classe o di rango. Ed era talmente apprezzato oltremanica che ospitò nella sua casa Filippo d’Edimburgo.
Alto aveva anche uno studio a Figazzano, qualche chilometro da Martina, La Puglia per lui era un luogo sacro. Su molti quadri è consacrata Martina Franca, la sua terra rossa, i suoi ulivi. Toccante unn pensiero di Giuseppe Giacovazzo dedicato a Filippo in “Paese Vivrai”. “Ti racconto – dopo quasi una vita perché una lontana domenica ti trascinai dalla città a vedere com’era fatto il mio paese. Tu ora lo dipingi. Io lo riscopro nella tua pittura”. E più avanti continuava chiedendosi la ragione che fa rinascere sempre viva l’emozione di trovare nell’aria le case pulite, le “commerse” elevate “nel cielo come stendardi, le strade tagliate dal vento…”. Quante volte Filippo tornò a Locoroondo – paese-bomboniera fissato nel suo cuore – per rivedere l’intreccio dei vicoli, il luogo rotondo che dall’alto domina vigneti, trulli, la strada che porta a Martina attraversando un paesaggio da sogno. Filippo e Giuseppe si erano conosciuti in un oratorio di Bari, quando erano giovani e la loro amicizia è durata sino alla fine.
Entrambi amavano la Puglia. Giacovazzo la descriveva con la penna, Filippo con il pennello e la tavolozza. Giacovazzo scrisse il libro “La Puglia il suo cuore”, che presentò la prima volta nella masseria Conti del Duca di Crispiano davanti a un pubblico numeroso e attento, e realizzò un documentario per Raidue su Domenico Cantatore, che era di Ruvo di Puglia; Filippo con le sue tele la portava in giro anche all’estero, compresa la Jugoslavia. A Milano organizzava serate importanti, invitando Raffaele De Grada, Sebastiano Grasso, critici d’arte de “Il Corriere della Sera”, ed altre personalità. Partecipò anche al progetto di un Premio Puglia, da tenersi in un ristorante che Chechele Jacubino aveva appenaacquistato acquietato e subito intitolato alla nostra regione.
Da Chechele lui e io eravamo di casa, perché in quella cucina, regina Nennella, inventammo il Premio Milano e lo sviluppammo facendo parlare tutti i giornali e le televisioni. Filippo era una persona riservata, che non si vantava mai della posizione acquisita come pittore. Era laureato in ingegneria e non lo diceva mai a nessuno. Non agiva mai per far pubblicare articoli sulla sua arte. Eppure i critici più prestigiosi gli dedicarono spazio. Ricordo una bellissima pagina pubblicata da Michele Campione sul “Corriere del Giorno”, in occasione della morte di Filippo in una clinica di Rotwill, in Svizzera, in seguito a un incidente stradale accaduto nei pressi di Ancona il giorno di Natale memtre andava dalla madre. A un certo punto dell’articolo Michele dice: “La pittura di Filippo Alto era passata dagli oblò che ricordavano il vano del finestrino dei treni per il lungo viaggio da Bari a Milano alla interpretazione degli emblemi più veri di una pugliesità che non era rammarico dolente o malinconia triste, ma elegia lirica, profonda, immediata, vissuta storicamente incarnata come una dimensione inalienabile… i gigi e i rosa, l’arco di un barocco leggiadro e poetico e le campiture distese…”. Sul “Corriere di via Solferino scrisse anche Grasso, che in una cartella di Alto dedicata gli ulivi inserì alcune sue poesie.
Come dimenticare Filippo Alto? Anche Arnaldo Giuliani s’impegnò in una presentazione in un’altra cartella di Filippo degli anni Sessanta. Lo aveva conosciuto al Circolo della Stampa e rivisto altre volte in un ristorante milanese, la cui titolare era una signora di Trani che sponsorizzava attività culturali. Ho davanti a me un catalogo, “Filippo Alto e la gloria della natura”, con una lunga riflessione di Carlo Bo sull’arte del pittore barese. E briciole di commenti di Mario De Micheli, Carlo Munari, Raffaele De Grada, Rossana Bossaglia, Maurizio Calvesi, Roberto Sanesi… La Bossaglia afferma che da una decina d’anni segue e apprezza la lunga fedeltà e insieme la freschezza con cui egli elabora i temi del paesaggio pugliese, quell’asperità e dolcezza, la carnosità della vegetazione, l’abbacinìo della luce, certo colore dell’aria… facendo intendere che anche lei ama la nostra terra, le sue forme, la sua policromia.
Filippo era nato nel 1933, scomparve nel ‘92, senza poter più parlare né muoversi. Un pomeriggio andai a fargli visita nella clinica svizzera e ne uscii con una tristezza infinita. Mi dissero che il compagno di tante iniziative, premi, serate, incontri organizzati insieme da quel posto lontano non sarebbe uscito più come prima. Invece dopo qualche mese arrivò la notizia che se era andato. La notizia si sparse, da Taranto mi telefonò quel gentiluomo di Vincenzo Petrocelli, che al “Corriere del Giorno”, quotidiano storico fondato da quattro cavalieri (Giovanni Acquaviva, Luigi Ferraiolo, Egidio Stagno… curava la terza pagina, e m’invitò a sintetizzargli a braccio la vita e la morte di Filippo Alto. Avevo perduto un altro pezzo della mia compagnia, un amico vero, che sapeva parlare e tacere a seconda delle circostanze. Anche agli incontri della giuria del Premio Milano, di cui faceva parte, non diceva mai una parola in più, non facerva mi un gesto per accattivarsi l’amicizia di chi poteva scrivere su di lui: Alberico Sala, per esempio, poeta e altro critico del “Corriere”. Più che parlare ascoltava. Una notte che facevano le ore piccole a “La Porta Rossa” di Chechele e Nennella insieme a Peppino Giacovazzo, che aveva avvertito solo lui del proprio arrivo a Milano (“Ci vediamo da Chechele, porta anche Franco”) parlammo di tante cose, anche di Guido Le Noci, che nel suo libretto rosso conclamava la sua amicizia con Restany. Quando uscimmo discutemmo del Premio Puglia, che poi fecero altri, e ci dette anche dei suggerimenti. Circolava la voce che l’autore di “Puglia il suo cuore” e già direttore della “Gazzetta” stesse per salire sulla plancia del “Giorno” e le voci si diffondevano. Giacovazzo, per un paio d’anni, era stato a Milano, collaborando con Paolo Grassi, di cui aveva la stima e l’affetto. Lo so perché una sera andai al Piccolo (allora scrivevo di spettacoli su “’Italia”, quotidiano cattolico che poi si fuse con “L’Avvenire d’Italia” di Bologna, diretto sa Raniero La Valle), e trovai Paolo Grassi nel ridotto. “Aspetto Giacovazzo”, mi disse. E scambiammo due parole sul testo che stava per essere rappresentato.
Qualche anno fa i figli Giorgio e Diego di Filippo ebbero l’idea d’incontrare alcuni amici del padre per apprendere come si comportasse fuori casa. “Ci ha educati con severità, ma con voi com’era?”. Dissi loro che quando era in nostra compagnia era buontempone, parlava anche nel suo dialetto, mi prendeva simpaticamente in giro assieme a Costantino Muscau, inviato speciale de “Il Corriere dell Sera”; in campagna da me si divertiva e divertiva; e noi non eravamo da meno. Aveva come spalla oltre a Costantio, Vito Plantone e Francesco Colucci (questore promosso prefetto). Li accompagnai nel laboratorio di Giuseppe Rossicone, grande ceramista che passava le giornate al lavoro, in via Chiossetto, dove realizzava sculture, mappamondi, faraglioni, multipli (Filippo ne aveva fatti un paio); da Piero Lotito, giornalista e scrittore (pubblica con Mondadori) e da altri e tutti dissero un gran bene. Scrissi un pezzo intitolato: “Due ragazzi in cerca del padre”. Mi sembrarono contenti di sapere che il papà era benvoluto e che aveva voluto dare a loro un’educazione non superficiale per prepararli come si deve alla durezza della realtà,
Filippo Alto lascia tante opere di diverse dimensioni. Ricordo che una sera il questore Enzo Caracciolo, poco prima che la cena arrivasse in tavola, si fermò davanti a un quadro di Filippo e poi gli chiese una spiegazione dell’opera; e lui rispose che un quadro non deve mai essere illustrato dall’autore: deve creare e emozioni. Non gli piaceva parlare di sé e del suo lavoro.

(foto: da sinistra Alto, Presicci, Del Mare, Tognoli, Vernola, Nencini)


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