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Michele, rigattiere pugliese arrivato a Milano su un carro bestiame e beniamino di Brera Ricordi

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Di Franco Presicci:

“Non viene più qui Michele?”. Il baritono Giuseppe Zecchillo, che amava farsi due passi dal suo studio, in via Fiori Chiari, al bar dell’angolo, al signore elegante, segaligno, imbiancato, faccia da Peppino De Filippo, rispose che Michele arrivava di solito verso le 10.30. Doveva quindi aspettare una decina di minuti. Zecchillo ordinò un caffè e sorseggiando la bevanda vide il rigattiere in sella al suo carretto a pedali, scendere e scaricare senza fatica i suoi esemplari di modernariato e qualche pezzo antico. Ma non il candelabro stile Liberty, che metteva da parte; anzi, in quello stile non aveva più niente. Poi il baritono gli si avvicinò, e gli riferì del presunto cliente che lo aveva interpellato.
A Brera Michele lo conoscevano tutti. Gli volevano bene e lo stimavano. Simpatico, a volte loquace, a volte taciturno, pensieroso, impenetrabile. Seduto su una vecchia e solida sedia, braccia conserte, gambe accavallate, sguardo vigile che roteava tra l’Accademia con l’ingresso sempre affollato e il Bar Giamaica, un tempo meta di pittori, scrittori, poeti, che comodi ai tavoli all’esterno del locale discutevano.
Michele era pugliese. Nato il 23 gennaio del 1926 a Trinitapoli, da una famiglia modesta (il padre, Ruggero, faceva i pozzi artesiani). Con i parenti vicini e lontani aveva pochi rapporti. Abitava in corso Como 9, in un abbaino: casa e magazzino. Lasciava nel cortile il carretto, senza il timore che glielo rubassero, dati l’affetto e la stima di cui godeva. A Brera stava da 50 anni ed era considerato un’istituzione,
Al suo arrivo a Milano, oltre 50 anni fa, c’erano ancora i “ghisa” sulla pedana, e lui quando ne vedeva uno lo osservava incuriosito. Geloso della sua vita privata, non aveva mai confidato a nessuno che di cognome faceva Lamantea. Fu il nipote Domenico, vicecommissario in via Fatebenefratelli, in servizio alla sezione omicidi, a dirlo ai giornalisti, quando Michele morì. E i cronisti, affamati di notizie, si misero a cercarle, scavando qua e là, bussando alle porte, interrogando la gente per strada, ricevendo la stessa risposta: “Bravissima persona, educata, a volte scherzosa, disponibile”. E Michele ebbe intere pagine sui giornali, compreso “Il Corriere della Sera”. Scoperto il nipote, le “volpi” erano riuscite a completare il quadro.

Screenshot 20250406 052452Michele lasciò i banchi di scuola da ragazzo ed era analfabeta. Partì per Milano su un carro-bestiame. Dormì per quattro anni sotto i ponti, per un piatto di minestra frequentò la mensa dei preti, in seguito affittò una stanza in corso Como. Prendeva vasi in frantumi, li rimetteva in sesto e li vendeva. Poi fece un salto di qualità, trattando oggetti sani e più importanti. Occupò quel posto, in cui via Brera incrocia via Fiori Chiari, e a poco a poco divenne il beniamino di tutti, un po’ lunatico, ma generoso.
Una sera, uscito da una ricevitoria di via San Marco, dove aveva ritirato una modesta vincita al lotto, una signora, facendo marcia indietro con l’auto, lo travolse. Michele rimase in coma una ventina di giorni. I nipoti Domenico e Giuseppe andarono a trovarlo in ospedale e sul comodino notarono un biglietto. Lo aprirono: era una poesia firmata Isabel. Chi era, questa Isabel? Una giovane tedesca, che ammirava moltissimo Michele. Lo aveva conosciuto in un bar durante un suo soggiorno a Milano con “Erasmus”. Frequentando Brera, era rimasta incantata dal personaggio. Studiava arte audiovisivi multimediali all’Università di Colonia”. Nacque una bella amicizia schietta, sincera. E quando il rigattiere era ricoverato in ospedale tutti i giorni andava a trovarlo, si avvicinava al letto, gli accarezzava la mano e gli parlava sommessamente di sé, della sua vita, dei suoi studi. All’epoca Isabel aveva 25 anni ed era molto carina. Nata a Straubing, si chiama Briskorn.
Grazie a Domenico, la giovane tedesca ha accettato di rispondere alle mie domande: è gentilissima, paziente e si esprime molto bene nella nostra lingua. Nel 2003 girò un video amatoriale sulla giornata di Michele. “Se vuole glielo mando”. Nel giro di pochi minuti me lo sono trovato sul computer. Un video interessante, ben fatto, in cui rivedo Michele mentre si racconta, carica la sua roba nel cortile di casa, attraversa le vie della città in sella al suo carretto, fa colazione nel bar di fronte alla sua postazione quotidiana, parla un po’ con gli avventori montando il suo “mercatino”. Insomma, Isabel in quel filmato lo fa rivivere, Michele; e lo coglie nei momenti in cui ha voglia di aprirsi, magari mentre s’infila la giacca.
“Era un maestro di vita, saggio, con una sua visione del mondo, autentico, senza filtri, senza maschera, capace di fare da “trait-union” tra persone diverse davanti al suo spazio. Era libero come un uccello”. E’ scomparso a 77 anni.
Poco prima dei funerali a Domenico e Giuseppe, che fa il ristoratore, si accostò un giovane, che disse di essere il primo violoncellista della Scala e desiderava suonare durante la cerimonia nella chiesa di San Marco l”Ave Maria” di Schubert e musiche di Bach. In un angolo c’era Isabel, tenera, bella, addolorata. Domenico la vide e la invitò a sedersi nella fila riservata alla famiglia. Commosso il baritono Giuseppe Zecchillo, famosissimo non soltanto a Milano.
Deliziosa Isabel! Fece anche la tesi di laurea su Michele, e per realizzare il video andò a Trinitapoli a parlare con i parenti, che le dissero tutto quello che serviva per realizzare la sua opera. Una storia esemplare, ripeto, di amicizia pura, vera.
Intanto Domenico e Giuseppe erano tornati sul luogo dell’incidente per recuperare il carretto. “In due facemmo uno sforzo notevole, mentre lo zio ce la faceva da solo”. E attraversando le vie che portano a corso Como, la gente li fermava, chiedendo con modi bruschi dove avessero preso quel veicolo, credendo che lo avessero sottratto a Michele.
Michele a Brera era dunque un monumento. Ricordo i giornalisti di tutte le testate intervistare le persone disposte a rispondere
Qualche cittadino piangeva, raccontando scampoli delle giornate di Michele, che a volte indossava un cappello alla Fellini, altre volte un cilindro. I fotografi, come il mio amico Peppino Bruno, professione dentista, lo riprendevano vicino a un grammofono a tromba o seduto come un Papa, da solo o impegnato in una conversazione con qualche conoscente più assiduo. Migliaia gli scatti dei turisti, per cui immagini di Michele sono quasi in tutto il mondo.
Per merito di Isabel, anche i nipoti sanno molto di più dello zio, che come detto era persona semplice e gelosa della sua vita privata. Non sanno neppure oggi se fosse davvero sposato, come scrisse qualche giornale, aggiungendo che giocava in tutte le ricevitorie di Milano, “ma non era certo un ludopatico, se è vero che tentasse la fortuna. Era parsimonioso e non aveva voglia di sprecare i soldi”. Domenico parla con con commozione.
Nel bellissimo libro di ritratti di Federica Berner, con testi di Guido Vergani, Andrea Del Guercio, Elisabetta Bossi Fedrigotti campeggia anche il volto di Michele, accanto a quelli di Raffaele De Grada, Guido Ballo, Emilio Tadini, Osvaldo Patani, Enrico Baj, Ernesto Treccani, Luciano Minguzzi… C’è anche quello, fra gli altri, della nota pellicciaia Nuccia Bossi e del gioielliere Francesco Mereu. Insomma, Michele era incastonato nella storia del quartiere, assieme agli artigiani, ai titolari di negozi storici, allo stesso Bar Giamaica e alla latteria delle pie sorelle Pirovini, dove il pittore albanese Ibrahim Kodra oltre 70 anni fa aveva un conto chilometrico, incrementato dagli amici che seguivano ogni suo passo.
Da tempo Brera è cambiata, ma nel quartiere rimane il ricordo di Michele, di Zecchillo, del pittore che appena arrivato in Italia dopo essere stato educato alla corte di re Zogu fece un discorso a Mussolini, fatto di soli numeri da uno a cento, nella sua lingua che nessuno dei presenti capiva. Simpatico, spiritoso, colto, amante della compagnia, divenuto col tempo celebre a Milano, ma anche nel resto d’Italia e all’estero.
Incancellabile dunque la figura di Michele Lamantea, che dovrebbe essere commemorato con qualche evento, secondo il desiderio di alcuni abitanti. “Michele era per noi come un padre, un fratello, discreto, tranquillo, pronto alla battuta quando aveva voglia di parlre. Ci manca, L’angolo in cui piazzava la sua roba ha perduto un pilastro”. Per loro non era il rigattiere di Brera, come lo chiamavano i giornali, i forestieri. Era Michele. Per qualche tempo ha avuto tra l’altro il busto, somigliantissimo all’originale, di Benito Mussolini. Poi è riuscito a venderlo.
Vidi Michele l’ultima volta molti anni fa, quando andai al bar per incontrare Zecchillo. A una parete erano appesi alcuni dei suoi quadri realizzati con la pasta (spaghetti, maccheroni, linguine…) irrorati di porporina. Mi dissero che Michele, al mattino, appena arrivato, li osservava facendo colazione.

(foto home page: di Giuseppe Bruno)


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