Chi ha varcato (e non da poco) la soglia degli anta può ben affermare che quella, per l’Italia, fu un’estate felice. Ed irripetibile. Grazie alla cosa più banale, apparentemente più banale: una palla.
L’Italia che era in perenne crisi politica, che negli anni appena precedenti aveva subìto il terrorismo, che era alle prese con una crisi sociale legata allo scollamento sempre più marcato fra i bisogni della popolazione e le risposte date dalla politica, ecco quell’Italia là stava messa malissimo pure nella passione collettiva per eccellenza: il calcio. Le scommesse clandestine, gli arresti di celebrati campioni (le volanti nello stadio in diretta a Novantesimo minuto, incredibile e terrificante scena) le retrocessioni a tavolino, il commissariamento della federazione, erano i prodromi di una partecipazione al campionato del mondo 1982 in Spagna che appunto si preannunciava fallimentare. Nazionale di calcio in enorme difficoltà, il migliore attaccante, Roberto Bettega, infortunatoosi gravemente, convocazioni da parte del commissario tecnico Enzo Bearzot che avevano fatto storcere molti, molti, altri nasi. Ma come, Pruzzo a casa e Rossi al mondiale, dopo anni di squalifica per le scommesse.
Inizio del Mundial spagnolo: stentatissimo per l’Italia, girone superato per la miglior differenza reti (e con accuse di combine, pure). Nel frattempo i vari Brasile, Germania, Francia, si mettevano in evidenza. I sudamericani soprattutto.
Nel secondo turno, raggruppamento a tre Italia-Argentina-Brasile. Il peggio possibile. Ma con un inizio insperato: vittoria sull’Argentina. Solo che il centravanti, l’Italia, era come se non lo avesse. Paolo Rossi nullo, sin dal girone eliminatorio. Con tale problema nel reparto avanzato, impossibile superare il Brasile favoritissimo per la vittoria del mondiale.
L’Italia, tutta l’Italia, ci sperava ma era realista: la corsa degli azzurri si sarebbe fermata quel pomeriggio, allo stadio dell’Espanol di Barcellona.
Quel pomeriggio che invece cambiò la storia personale di Paolo Rossi, quella della nazionale, quella dell’Italia tutta. Tre gol di Rossi al Brasile, qualificazione alla semifinale. Febbre mondiale crescente in tutto il Paese. Che si scoprì felice. E perfino unito. E perfino orgoglioso di se stesso.
Semifinale, doppietta di Paolo Rossi. Eliminata la Polonia, qualificazione alla finale da disputare con la Germania che già dodici anni prima, nella partita del secolo, fu battuta con il memorabile 4-3. Febbre
mundial ai livelli massimi, in Italia. Il Paese viveva in funzione della sera di quell’11 luglio 1982.
Finalissima al Santiago Bernabeu di Madrid. Un rigore sbagliato da Cabrini nel primo tempo finito 0-0. Davanti alla tv 37 milioni e mezzo di italiani, il programma più visto di sempre.
Ripresa: Paolo Rossi in gol, il sesto consecutivo. E poi Tardelli con corredo di urlo passato alla storia, poi Altobelli con corredo di “non ci prendono più” del presidente della Repubblica, Sandro Pertini, in tribuna. La coppa del mondo, 44 anni dopo l’ultimo successo. Un Paese intero a festeggiare, nelle strade, con i caroselli di auto e qualsiasi altro modo di esprimere la felicità. Un Paese unito e che scoprì una novità importante: era un’estate bellissima, quella della felicità di tutti. Grazie ad una cosa apparentemente banale: una palla. Grazie ad un nome ed un cognome fra i più comuni d’Italia: Paolo Rossi. E se ti trovavi all’estero, alla dogana, se eri italiano e dunque eri automaticamente “Paolo Rossi”, passavi senza neanche il controllo dei documenti, perché quei doganieri libici erano felici per te, adolescente italiano che rappresentavi, in quel momento, il Paese più importante del mondo. Importante e felice. Come non lo è stato più: l’Italia social non può neanche capire cosa fosse quella felicità, vera, fisica, non surrogata o virtuale, per la società, per il sociale. Importante e felice grazie anche, se non soprattutto, a Paolo Rossi.