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Gli scatti a Napoli del fotografo tarantino Carmine La Fratta La ricerca dei vicoli

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Di Franco Presicci:

Da tempo Carmine La Fratta, fotografo bravissimo e infaticabile, pensava di andare a cercare a Napoli i vicoli di Totò e di Eduardo De Filippo; e i “bassi” descritti da Matilde Serao nel suo libro “Il ventre di Napoli”, del 1884: “case dove vive e mal vive il popolo, in questi ‘bassi’ che sono già oscuri, oppressi, angusti nelle più grandi e che nei vicoli, in cento vicoli, in mille vicoli diventano delle stamberghe sotterranee, quasi diventano degli antri, dove si agitano e brulicano vite umane…”.
Alla fine La Fratta si è messo al volante ed è corso nella città partenopea, quella di Luciano De Crescenzo, ingegnere, filosofo, scrittore, sceneggiatore, attore (“Così parlò Bellavista”); di Giuseppe Marotta (“Mal di Galeria”, “Le Milanesi”…), facendo un tuffo in quelle vene che ricordano anche Nino Taranto e Maradona, colto anche in un murale che giganteggia sull’intera facciata di uno palazzo.

Screenshot 20250413 065234La Fratta aveva realizzato il suo desiderio e rimase qui cinque giorni, ritraendo botteghe; ambulanti con le mani piene di cornetti apotropaici color rosso; immagini disegnate dappertutto, sulle porte, negli androni, sui muri del principe de Curtis nelle espressioni di alcuni dei suoi film più famosi; di Peppino e di Edoardo De Filippo, Nino Taranto, nella finzione scenica “Ciccio Formaggio”… E non potè fare a meno, La Fratta, di inoltrarsi in San Gregorio Armeno, famoso in tutto il mondo per i negozi di statuine realistiche, ben sagomate, dal pescivendolo al pizzaiolo, di presepi che a Napoli in passato addirittura un sovrano e sua moglie dettero una mano a rendere famosi quelle scenografie sacre.
Eccolo, La Fratta, nel rione Sanità, che dà il titolo a una
delle commedie di Eduardo, e nelle vie, viuzze, che Curzio Malaparte percorse nel ‘43 e nel ‘44 con il maggiore Jack, non dimenticando altri pezzi della città, come il Pallonetto, il vico San Liborio – quello citato da Filomena Marturano nella celebre commedia eduardiana, in cui “fra l’altro d’estate non si respira per il caldo”. La realtà dei vicoli e dei “bassi” è oggi un po’ diversa da quella descritta da donna Matilde, ma La Fratta, girellando con il suo carico professionale, ha scoperto curiosità che colpiscono chi guarda le sue foto: brani di vita che in parte sopravvivono, antiche atmosfere, fondachi. E facce, sorrisi, atteggiamenti: un’antologia che prima o poi il fotografo raccoglierà in un volume.
Da quel viaggio è tornato a Lama, dove ha casa e laboratorio, più che soddisfatto, pronto a seguire un altro itinerario: i borghi disabitati, con le sole presenze di un vegliardo legato indissolubilmente alla sua terra, alla sua culla come l’edera al tronco di un albero o a una parete, un gatto, un cane che non si guardano neppure. Insomma il tarantino La Fratta è uno zingaro dell’arte della fotografia, un testimone attento, scrupoloso, quasi “gemello” del notissimo e molto apprezzato Fulvio Roiter, che ha pubblicato libri fotografici sul carnevale di Venezia, sui navigli di Milano, facendo acrobazie per riprendere un aspetto, una luce, un’architettura. E a La Fratta interessano appunto i visi, le espressioni, la gente, le folle. Per questo lo vediamo impegnato alle feste grandiose di paesi e città, come quelle per San Giuseppe. La ricorrenza è appena passata, ma lui fa circolare i suoi “quadri”; riprende gli artefici delle tavole dei santi a Lizzano, a Fragagnano, interpella, interroga, dialoga, apprende e scatta. Lui vuole conoscere chi mette in piedi una festa, la storia di un evento che richiama migliaia e migliaia di persone, che svuota paesi di appassionati che si riversano in quello in cui la manifestazione si snoda.
A San Marzano di San Giuseppe ha, sì, fatto molti “clic” sulle montagne di rami di ulivo portati dai trattori e dai carri o trascinati da volenterosi ed eccitati cittadini, entusiasti del ruolo loro assegnato. E si chiede perché l’ulivo, quest’albero dallo zoccolo poderoso, dal tronco a volte contorto, come in preghiera o piegato e appoggiato a vecchi mattoni come un vegliardo al bastone. L’ulivo è una pianta nobile che ci dà nutrimento; attecchisce ovunque, resiste alla mancanza di ogni tipo di alimento, ad ogni clima. A San Marzano di San Giuseppe proviene dalle potature eseguite in tanti fondi. L’ulivo è bello a vedersi, spesso è secolare: lo è a Savelletri, nei pressi della città bianca: Ostuni, dove fa compagnia a qualche carrubo. Qualche esemplare giganteggia anche a Martina Franca, in questa o quella masseria. L’ulivo ha la sua storia, viene da Paesi lontani, ha anche a che fare con la vita di Gesù: è sotto il Monte degli Ulivi che si ritirò il Salvatore dopo l’Ultima Cena.
Lo abbiamo ritrovato anche a Lizzano, La Fratta, dove ha fotografato le tavole imbandite per il Santo falegname, padre putativo del Cristo. Quelle tavole ora sono vuote, perché il bendidio che contenevano è stato donato ai poveri e ai turisti. Ma il fotografo zingaro ha trovato residui della festa interessanti. E ha fatto numerosi scatti anche a Fragagnano, nella stessa occasione della celebrazione di San Giuseppe. Dappertutto ha immortalato i falò, montati anche qui con cataste di rami di ulivo con l’aggiunta di mobili disusati. Fiamme altissime, come un omaggio al cielo. E alla fine i fuochi d’artificio, opere d’arte che a mezzanotte disegnano stelle pulsanti in alto e si spengono a poco a poco. Entusiasmano, esaltano quelle piccole luci che esplodono costruendo corolle nel buio. il fotografo errante ha altri fuochi da cogliere, oltre ai borghi deserti, dai quali gli abitanti fuggono o sono già fuggiti perché quelle vie non hanno più niente da offrire, soprattutto ai giovani in cerca di un avvenire sicuro. Restano i muri, qua e là solidi abbracciati, con porte e finestre serrate. Ne ho visitato qualcuno: di abitanti ce ne sono, c’è anche il consiglio comunale, ma più paesi sono accorpati amministrativamente. Sui tanti portoni è incollata la scritta: “Si vende”.
Dà amarezza un guscio che si svuota, un rifugio abbandonato, un’alcova deserta. E amarezza producono certi vicoli di Napoli (con il gabinetto di decenza in comune) che hanno cambiato fisionomia, come molte case di ringhiera a Milano. In quei vicoli echeggiano ancora le storie di Eduardo, come “Napoli Milionaria”, film del ‘50 con interpreti lo stesso Eduardo e Titina De Filippo, Totò, Carlo Ninchi…; “Gli alunni del sole, del ‘52, di Giuseppe Marotta sulla vita di ogni giorno nei vicoli e nei “bassi” di Napoli…”.
Ricordo “Così parlò Bellavista”, opera di De Crescenzo degli ani ‘80, in cui l’autore parla anche degli assistiti, quei personaggi, assistiti non si sa da chi, che sostengono d’indovinare per gli altri i numeri “d’a bonafeciàte”, com’era detto il lotto non soltanto a Napoli, città bellissima, canora, con il profumo del mare, il calore del sole, l’ospitalità, l’intelligenza, l’inventiva della gente, esaltati anche nelle canzoni. Ogni vicolo una storia, una caratteristica. Al Pallonetto di Santa Chiara alla fine dell’800 c’erano gli uffici centrali della girandola dei numeri e dei sogni, appunto il lotto, che, per la cronaca, non è nato a Napoli, ma a Genova, si dice dalla fantasia di un barbiere. In piazzetta Ecce Homo echeggia il nome di Matilde Serao, giornalista, scrittrice, fondatrice e direttrice di giornali, dallo stile caustico, che in un “basso” abitò per qualche tempo con i genitori quando tornarono dalla Grecia. Donna Matilde conosceva dunque bene i vicoli, i negozi, le case, la gente che ha poi travasato nelle sue pagine, con stile caustico. Pane per i denti di La Fratta, attratto anche dai vicoli degli artigiani, gi Spadari, per esempio, che hanno vie anche a Milano, ad esempio l’Armorari, traverse della lunga e popolosa via Torino. E come nella città del Porta esiste il vicolo dei Lavandai, attraversato dal “ricciolino” d’acqua sfuggita al Naviglio Grande, anche Napoli ha il vico Lavinaio. E tra i vicoli di Eduardo torna alla mente il vico San Liborio.
Ripeto non sono più i vicoli di Matilde Serao, riportati nei suoi libri, nei suoi racconti con tutto ciò che contenevano. Adesso, per dirne una, il volto e le geometrie realizzate sul campo dal “Pibe de Oro” ricoprono intere facciate di palazzi anche di cinque piani. Le immagini di La Fratta, icastiche, toccanti, fanno palpitare l’osservatore. Come quelle dei flagellanti scattate non so dove. Adesso si prepara per la settimana Santa a Taranto, dove lo si vedrà sgattaiolare, tra sdanghieri, “perdùne”, “fratelle”, la folla che trasforma in corridoi le strade attraversate dalla processione.

 


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