Di Franco Presicci:
E anche Franco Abruzzo, asso del giornalismo italiano e già presidente dell’Ordine lombardo della categoria, se n’è andato. Amici e avversari nelle lotte per la conquista dei vertici del settore si sono uniti nel dolore per la sua perdita.
Abruzzo era un personaggio famoso, non soltanto a Milano e al Nord. Ed era ovunque apprezzato per la cultura illimitata, per la sapienza professionale, per l’abilità di pilota del transatlantico che accorpa tutti quelli che scrivono per quotidiani e settimanali. Era esperto di storia, comprese quelle giornalismo, e del diritto. Sapeva moltissimo di economia, finanza, conosceva a menadito le leggi, le date di pubblicazione, i modi d’interpretazione. Quando lui parlava in un convegno su questi argomenti bisognava ascoltarlo attentamente, perché c’era solo da imparare.
Era informatissimo. Un giorno ero a pranzo a casa del giudice Romeo Quatraro, che diventò presidente del Tribunale Civile nel capoluogo lombardo, e parlando di Franco Abruzzo disse che, cultura a parte, da tutti riconosciuta, aveva una memoria formidabile. Se si piazzava davanti a un’atlante, metteva il dito sui luoghi in cui erano avvenute le grandi battaglie, non soltanto quelle della prima e della seconda guerra mondiale, ed evocava i nomi dei condottieri, lo schieramento degli eserciti, le tattiche, le strategie adottate…
Quando era al “Giorno”, dove aveva il compito di seguire il Palazzo di Giustizia, inanellava spesso “scoop”. S’infilava negli uffici e pescava panieri di notizie. Sollevava il telefono e mieteva. Scriveva articoli sui “summit” mafiosi e dava i nomi di quelli che per sedersi al tavolo avevano evitato le regole del soggiorno obbligato. Se gli si facevano domande su una “cosca” o su una “’ndrina” le risposte non erano mai superficiali, perchè anche di quella brodaglia conosceva tutti gli ingredienti. Di Cosa nostra conosceva le gerarchie, i riti d’iniziazione, la storia e le storie. Era abile, battagliero, tenace. Un giorno duellò con un cancelliere, rivendicando il diritto di avere un’informazione. Lo appresi dalla radio.
Aveva coraggio, non si fermava mai a metà del percorso. Se aveva in mente un obiettivo, lo conseguiva. Se trafugava una notizia mentre stava sorbendo un caffè al bar con l’amico e collega più caro non la condivideva per nulla al mondo. E non si vantava mai di un “buco” assestato alla concorrenza. Per lui contava la chicca ed era un maestro nell’irrorarla, nel farla crescere. La notizia si sviluppava, perché lui s’impegnava a scoprire tutti i dettagli. Era scrupoloso, non guardava l’orologio. Il suo lavoro ricominciava quando aveva mandato l’articolo in tipografia. Tutto questo quando era in cronaca e s’inventò i commissariati.
Una sera infervorò Enzo Macrì, il capo cronista, dicendogli che bisognava trovare un collega volenteroso, pieno di volontà ed energia e anche un po’ investigatore, da mandare negli avamposti di polizia, dove si riversano storie anche umane che gli uffici della questura non conoscono nemmeno. Macrì, siciliano purosangue, anche lui dal fiuto volpino, gli affidò un sondaggio. E il volenteroso emerse come il palombaro dall’acqua; e si mise a fare il giro della città, da un capo all’altro, da San Siro a Lambrate, da Porta Romana al Ticinese, tornando a casa spesso con il carniere pieno. Questa maratona ogni giorno.
Abruzzo rimase in cronaca con Italo Pietra, con Gaetano Afeltra, Guglielmo Zucconi. Con il terzo direttore passò ai Fatti della Vita come capo redattore. Ed ebbe più tempo per completare gli studi di Scienze Politiche laureandosi con 110 e lode all’Università Statale. E continuò a studiare. Studiava sempre, quando le notti al giornale erano tranquille, dopo avere studiato a casa.
Era serio, onesto, stakanovista, disponibile. Affrontava le situazioni più complesse con determinazione e saggezza. Era una fucina di idee. Aveva amicizie importanti e fonti dappertutto. Era un cacciatore in grado di telefonare alle 2 di notte ad un amico che poteva confermargli una notizia o arricchirla. E se c’era da aiutare un collega non si tirava indietro.
Franco Abruzzo era calabrese di Cosenza e aveva la testa dura (“absit injuria verbis”, anzi) ed era un po’ scontroso, a volte. Ma sapeva anche essere ironico, quando si stagliava davanti a un collega un po’ schivo. La sua gloriosa avventura al “Giorno” si concluse con la chiamata di Gianni Locatelli al “Sole-24 ore” come caporedattore centrale. Sul quel giornale scrisse articoli che tutti leggevano, e apprezzavano: imprenditori, banchieri, finanzieri… e finì nell’elenco dei 5000 personaggi più importanti.
Eugenio Scalfari lo chiamò a “Repubblica”, ma la trasmigrazione durò poco. Riscuoteva titoli di merito ovunque. Insegnava alla Bicocca, pubblicava libri, tra cui “Codice dell’Informazione e della Comunicazione”. Era direttore di “Tabloid”, l’organo dell’Ordine della Lombardia. Insegnò diritto dell’informazione all’Istituto “Carlo De Martino”, per la formazione al giornalismo. Era grande amico di Walter Tobagi, firma autorevole del “Corriere della Sera” e un gran signore. Quando un gruppo di aspiranti brigatisti lo assassinò, lasciandolo sul marciapiede bagnato di pioggia, con l’ombrello di fianco, trovai Franco in casa della vittima. Immobile come una statua, gli occhi umidi, il volto teso, le mani congiunte sotto il naso. Attorno a lui, il vuoto. Arrivò Gaetano Afeltra, poi Giovanni Raimondi e Franco non se n’è accorse neppure. Sembrava una roccia ma era capace di soffrire molto in silenzio.
Franco Abruzzo e Giuseppe Gallizzi, già capo redattore centrale del “Corriere” e calabrese di Nicotera, due campioni in squadre avversarie, alle votazioni pr il rinnovo delle cariche all’Ordine e al Sindacato disegnavano geometrie perfette, si spiazzavano, svirgolavano, dribblavano, costruivano il gioco, ma si stimavano e restavano amici. Oggi Gallizzi, in pensione, scrive sul suo giornale, “La Voce dei Giornalisti”: “Un professionista serio e un qualificato rappresentante delle più alte istituzioni della nostra categoria. Ma soprattutto un amico, un collega con il quale posso dire di aver condiviso ogni passaggio di una carriera giornalistica accomunate dalle origini calabresi, dagli inizi a Sesto San Giovanni, dall’approdo nei quotidiani milanesi, fino alle battaglie all’ordine e al Sindacato dei giornalisti”.
Quando avevo 20 anni e vivevo ancora a Taranto Franco Abruzzo lo conoscevo di nome e già lo leggevo . Io scrivevo su un giornale della mia terra, su due di Bari e uno di Lecce e lui su altri. A Milano lessi una sua inchiesta molto interessante sulla scuola pubblicata sul “Touring Club”. Erano gli inizi degli anni ‘60. Lo incontrai la prima volta negli uffici di una casa discografica con sede alla periferia di Milano, dove scrivevamo le biografie dei cantanti. Abitavamo io in via Lorenteggio e lui in via Fatebenefratelli sul ristorante frequentato da Indro Montanelli. Il lavoro durò un mese, poi entrambi ci trasferimmo al quotidiano “L’Italia” in piazza Cavour, lui allo sport, io agli spettacoli. Ci vedevano quasi ogni sera, lui, per andare al suo posto doveva passare davanti al mio, dove c’ero poche ore, perché peregrinavo circhi equestri e prime teatrali e conferenze e interviste ad attori alla Terrazza Martini. Dopo qualche mese Franco salutò tutti e andò in via Fava, nel palazzone de “Il Giorno”. Io ci arrivai dopo. Qualche tempo fa sono riuscito a rintracciare il telefono di Graziano Motta, che fu capo servizio all’”Italia”. Sono passati più di sessant’anni e la prima domanda che mi ha fatto, è stata su Franco Abruzzo, che lui apprezzava molto. Motta è in pensione dopo essere stato per anni corrispondente di Radio Vaticana da Gerusalemme. Ha scritto un grosso libro sulla sua vita di giornalist, ma non vuole farlo recensire. Io l’ho letto e mi è piaciuto Ora lo richiamerò per dirgli che Franco non c’è più. Il giornalismo ha perduto la voce di un tenore, che ha onorato non solo la carta stampata, lottato come un leone per la difesa dei giornalisti, per la libertà di stampa. Dirgli addio pesa.
Io non andrò al suo funerale: le mie gambe non reggono più e non esco più da casa, ma soprattutto voglio ricordarlo vivo, ai tempi in cui dominava la cronaca del “Giorno” dalla sua postazione sotto la finestra al quarto piano o scambiava battute di spirito con Enzo Catania, cane da tartufi mai stanco. Lo ricorderò fare la ronda fra la sua scrivania e la redazione di Aldo Catalani, che confezionava il telegiornale per “Antenna Lombardia”, direttore Enzo Tortora. Ciao, Franco.