Di Franco Presicci:
A Milano non fa freddo”, “Mal di Galleria”: titoli di due libri di Giuseppe
Marotta, indimenticabile scrittore, che, nato in un vicolo della vecchia Napoli, si
trasferì nel ’25 a Milano, e se ne innamorò. Dopo una lunga e brillante come
critico cinematografico dell’”Europeo”, elzevirista del “Corriere della Sera…
tornò a casa pur continuando ad amare la terra del Porta. Si riteneva un terrone
prestato a Milano, come dice Carlo Castellaneta nel suo dizionario. Milano dal
cuore in mano; Milano accogliente; Milano che ha tutto; Milano che non
distingue tra meneghini e meridionali; Milano laboriosa; Milano creativa; Milano
che sa valorizzare l’intelligenza e la voglia di fare… Se si viene a Milano, non si ha
più voglia di tornare indietro. A Milano molti pugliesi si mimetizzano sotto la
lingua del luogo, adorano Meneghin e Cecca, conservano il ricordo di Piero
Mazzarella, del “Barbapedana”, ammirano il Naviglio Grande, sulle sponde del
quale negli anni ’50 molti “terroni” come me trovarono alloggio: si possono
ritrovare nelle composizioni del cantautore e acquafortista Gigi Pedroli, con i
tanti artigiani che si sono trasferiti o hanno abbassato la saracinesca. Chi viene a
Milano continua a sentire nostalgia del paese, ma resiste al suo richiamo. Il
manzoniano Francesco Lenoci dice “Com’è bello il cielo di Lombardia quand’è
bello”.
Queste voci si sono succedute durante il Book City giovedì sera al Libraccio
dell’alzaia Naviglio Grande, dove un bel “bouquet” di artisti della penna (oggetto
ormai rimpiazzato da telefonini e computer), hanno glorificato Milano, città ricca
di sogni realizzati e di speranze. Milena Vaccaro non viene neppure sfiorata
dall’idea di lasciare il suo locale in corso San Gottardo, l’antico borgo dei
formaggiai, al Ticinese, dove un tempo nelle case di ringhiera la gente
conversava sui ballatoi o da un ballatoio all’altro, dava una mano al vicino, se
aveva bisogno, teneva d’occhio i bambini che giocavano nel cortile. Roberto
Vitale ha raccontato un incontro in piazza Duomo con una donna venuta da Lima
e passeggiando nel primo pomeriggio di un giorno qualunque e lei gli confida che
gli è piaciuta molto quella storia d’amore del Manzoni, “mentre alle mie amiche
italiane meno, chissà perché”.…
Tutti gli autori, una ventina, che si sono alternati sono legati a Milano come
l’edera a un tronco d’albero o a una parete. E sono tutti presenti nel volume
fresco di stampa edito da Giacovelli: “Milano, città di passaggio o di nuove
radici?”. Maria Ardizzone ha presentato Erminio, il topo di Milano. Ne so
qualcosa: quando era ancora scoperto il naviglio Martesana, che oggi attraversa
in parte sottopelle via Melchiorre Gioia, ne vedevo tanti grossi e veloci scorrazzare sulle sponde come conigli sulla pista del circo in attesa degli applausi
del pubblico.
La serata è stata aperta da un martinese e una martinese l’ha conclusa. Il
professor Francesco Lenoci, che ha il dono dell’ubiquità, ha conciliato una sua
lezione alla Cattolica con la sua presenza in questa sala ricca di libri, e ha parlato
per pochi minuti della Puglia agganciata a Milano attraverso il Festival della Valle
d’Itria, che ogni anno viene illustrato al Piccolo Teatro fondato da Paolo Grassi e
da Giorgio Streheler; del caffè leccese e altre storie… ed è andato via di corsa.
Con la bravissima scrittrice Maria Carmela Ricci la libreria si è trasformata in
teatro: l’ex professoressa di matematica, che ha sempre attraversato anche il
mondo della letteratura, ha trasformato “Il libraccio” in teatro, recitando a
memoria due sue bellissime poesie in vernacolo, incluse nelle ultime pagine del
suo libro: “Quella nevicata del ’56 in Valle d’Itria”, editore Giacovelli. Lo ha fatto
da attrice con lunga esperienza della ribalta: la gestualità, le espressioni del
volto, la modulazione armonica, l’accento sulle espressioni onomatopeiche
hanno colpito tutti e provocato scrosci di applaudi. Incoraggiata dal calore della
platea, che l’ha invitata a declamare il testo originale, Maria Carmela deve
essersi sentita davvero sul palcoscenico e forse si è meravigliata lei stessa.
Quindi ha accennato alla “Nevicata del ‘56”. “La mia famiglia – ha detto – visse
la nevicata chiusa per giorni e giorni nei trulli. Io ero bambina, avevo cinque
anni, e nel libro sono Nina, la voce narrante. La neve creò un mondo incantato,
mi sembrava di vivere una favola”. Tutto coperto da quella sterminata panna
montata, le gambe vi affondavano, ed era complicato andare da un punto
all’altro intorno alla casa a cono di gelato. I giorni erano faticosi, più di quanto
non siano normalmente. E ha abbozzato le condizioni dei contadini assediati dai
sacrifici, dal lavoro duro, su cui prevaleva l’amore per la terra… Per un attimo la
mia mente è andata a Rocco Scotellaro: “La vigna non era stata ancora
zappata…Scesi tra le viti, è una scala questa vigna, ripidissima, a terrazze, fino giù
alla linea di alianti sull’ultima fabbrica. Si arriva alla casetta che guarda in giù
coperta di lamiere tenute ferme da grosse pietre… Tra le viti e gli alberi sono
attento ai piccoli rumori: le foglie delle canne, lo sventolio sui rami, un sasso che
rotola, uno scarabeo che si arrampica, le lucertole…”.
Un momento solo è durata la deviazione verso “L’uva puttanella”, dove rivive il
mondo contadino tra i suoi dolori e la sua miseria. Maria Carmela la descrive con
efficacia e distacco, apparente. “I contadini parlano in dialetto e io ho voluto
trasmettere ai lettori la storia e la cultura di un popolo, la sua evoluzione, le sue
radici… Un popolo senza radici è un popolo malato e non ha futuro… Il popolo contadino comunica valori importanti: profondo rispetto della famiglia, del lavoro, la
solidarietà, la vita secondo natura, le cui leggi sono sacre, mentre l’uomo di oggi
tende a stravolgerle”. Ho seguito Maria Carmela con molta attenzione e così ha fatto
il pubblico, senza perdere una virgola del suo discorso. Maria Carmela sa toccare il
cuore di chi l’ascolta. Coinvolge, trascina, affascina.
Ha proseguito raccontando l’”Accademia “d’a cutìzze” di Martina, della quale lei e
il marito, il tenore Gianni Nasti (quando tuona emoziona), fanno parte. Ma questa
volta ha dovuto spiegare, tradurre: ‘A cutìzze è la roccia, la pietra, quella dei muri a
secco che delimita i tratturi, che forma le specchie, ha innalzato i trulli; la pietra dei
vignali, gobbe sparse nel terreno. All’Accademia “d’a cutìzze” si snocciolano storie,
in vernacolo e non, si cantano brani ispirati alla vita quotidiana della città (Giovanni
Nardelli fra i tanti ne ha scritto uno sulla polpetta), si declamano poesie, si recita.
Insomma Maria Carmela ha portato brani di Martina Franca, un gioiello, a Milano.
Iniziata alle 18, la serata si è conclusa alle 19,30. Il Naviglio Grande, caro al poeta
Alfonso Gatto, scorreva placido e silenzioso. Le luci delle bancarelle, primo assaggio
del Natale, si riflettevano nella sua acqua. La ripa e l’alzaia formicolavano di giovani
ed anziani; e anche il “pont de preja”, oggi dedicato alla poetessa del naviglio, Alda
Merini, era affollato. Il ponte congiunge l’una e l’altra riva proprio davanti al
Libraccio, dove si esaltava Milano. Molti indugiavano davanti agli oggetti proposti
dalle bancarelle; altri passeggiavano, magari come me pensando ad Alonso Gatto: “I
navigli con la loro cerchia restano strade: strade d’acqua silente, con odore di terra,
di carreggiate, di verdura: scomparsi si ricordano ancora per la luce rimasta sulle
case prima specchiate ed oggi tremule di quella vecchia penombra, per dei vuoti
attoniti ed irreali cinti dalle spalliere…”.
Una manifestazione come quella andata in onda al Libraccio non poteva avere una
cornice più adeguata. Vi avrei visto volentieri il grande giornalista amico di Indro
Montanelli, Gaetano Afeltra, direttore prima del “Corriere d’Informazione” e poi de
“Il Giorno”, che appena arrivato a Milano dalla sua Amalfi, nel ’39, andò a vivere in
una pensione affacciata sul tombòn de Sant March, tratto del Naviglio Martesana
che tagliava l’attuale via San Marco. Afeltra amava Milano più di tanti meneghini;
più di quelli che sentenziano che Milano è brutta, mentre è una città discreta, che
non ha voglia – come afferma Guido Piovene nel suo volume “Viaggio in Italia” – di
mostrare a tutti la sua bellezza. Fate quattro passi in Galleria o in via Bigli, dove visse
il Premio Nobel Eugenio Montale, o in via Morone, dove ebbe il salotto la contessa
Clara Maffei o in Corsia dei Servi, della quale spesso scriveva Stendhal come
principio del corso delle carrozze che arrivava ai bastioni di Porta Orientale, o in
corso Venezia che vanta facciate Liberty, e poi emettete la vostra sentenza.