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Ilva: Genitori tarantini contro L’Eco di Bergamo Contestato l'editoriale del giornale lombardo

ilva taranto da strada

Di seguito un comunicato diffuso dai Genitori tarantini. A seguire il testo dell’editoriale (a firma di Beppe Facchetti) contestato:

riteniamo l’articolo da voi titolato “Se chiude l’Ilva paghiamo tutti”, pubblicato in data 19 maggio 2018, offensivo per l’intera comunità pugliese. Come tarantini, ancor più profondamente e duramente censuriamo le vostre parole. Queste sono talmente sciagurate da non trovare la benché minima giustificazione.

Da anni la comunità tarantina paga un prezzo altissimo, insopportabile per quella produzione che, secondo voi, è di supporto anche all’economia del nord. Vi siete mai chiesti quanto costa, a noi tarantini, un chilo di acciaio? Non ci riferiamo ai costi della semplice produzione (a questo sapreste rispondere in un secondo, immaginiamo); vi chiediamo quanto costi in termini di distruzione. Quanto costa in vite umane? Quanto in malattie e spese sanitarie? Quanto in tumori in ogni parte del corpo, senza distinzione di sesso e età? Quanto in gravi patologie cardiovascolari? Quanto in quelle respiratorie? Quanto in viaggi della speranza, quasi sempre diventata disperazione? Quanto in casi di depressione? Quanto in casi di infertilità maschile e femminile? Quanto in bambini nati già malati, nati morti o mai nati? Quanto in offese alle tombe dei nostri morti, deturpate dall’infinita impronta del rosso-ruggine maledetto? Quanto in diritti negati, soprattutto ai bambini? Quanto in territorio offeso? Quanto in giovani che partono per colpa di un’industria che crea disoccupazione? Quanto in agricoltura e allevamento negati? Quanto in mare violentato? Quanto in inquinamento che toglie il respiro? Quanto in futuro negato ad un’intera provincia di questa nazione? Quanto in sfregi alla bellezza e alla Storia? Quanto costa in tradimenti della Costituzione della Repubblica italiana? Voi, invece, vi preoccupate delle ricadute economiche sull’Italia del nord. Le nostre carni malate e i nostri morti vengono sacrificati per garantirvi uno sviluppo sicuro e senza danni; falsamente auspicate artificiose soluzioni per conciliare il lavoro con la salute di una città (tipo la copertura dei parchi di minerali che copre quello che si vede, ma lascia agire tutto quello che non si vede, a cominciare dalle emissioni di diossina o il piombo entrato nel sangue dei nostri bambini, giusto per fare un paio di esempi). Vogliamo ricordarvi che l’area a caldo di Genova venne chiusa perché procurava morti e malattie ad operai e cittadini. Quella stessa area di produzione venne trasferita a Taranto e fu, per le stesse ragioni, l’oggetto che mosse la Magistratura tarantina ad ordinarne il sequestro senza facoltà d’uso. Voi dichiarate discutibile l’intervento dei giudici; i governi italiani lo hanno calpestato con ben dodici decreti legge, prevedendo, tra le altre cose, l’immunità penale per i commissari e anche per i futuri acquirenti. Cose da quarto mondo!

Impianti talmente vetusti da cadere a pezzi non potranno mai garantire (e già da decenni non garantiscono) sicurezza e salute sia per quei 14.000 dipendenti che richiamate nell’articolo, sia agli abitanti di un’intera provincia, senza parlare di quelli delle province limitrofe. E nessun riferimento alle percentuali di malattie e morte per danni riconducibili all’inquinamento industriale che riguardano il territorio tarantino.

Dal vostro articolo, però, ricaviamo una conferma alle certezze che già nutrivamo. Siete talmente aridi da calpestare il sacrificio di esseri umani, vostri connazionali fino a prova contraria, per continuare ad essere assistiti. Perché la verità è che avete sempre condannato il sud per quella parte d’Italia propensa all’assistenzialismo. In realtà, dopo aver depredato in maniera vergognosa il sud, ancora oggi chiedete sacrifici, non importa di quali entità, a noi per continuare ad essere assistiti a nostre spese.

La nostra principale occupazione è piangere i nostri morti, seppellirli e ricordarli attraverso fotografie su marmi offesi dal rosso del minerale di ferro; per questo, noi paghiamo, non veniamo pagati. I più fortunati tra noi riescono a vedere i propri figli lasciare questa città in cerca di lavoro. Quello che voi chiamate maxi stabilimento affacciato sul Golfo, noi lo chiamiamo enorme palla d’acciaio al piede per il nostro futuro.

Siete inseriti, a buon diritto, in quella Repubblica italiana, vergogna dell’Europa, che legifera in continuazione per difendere la produzione mortale e seppellire i diritti fondamentali garantiti dalla Carta costituzionale.

Questa lettera verrà inviata a tutti gli organi di stampa inseriti nei nostri contatti, ai quali chiederemo di stigmatizzare, dissociandosi, le parole del vostro articolo, in barba al sentimento corporativistico che unisce tra loro gli organi di informazione.

—–

Si chiuderebbe una tribolata vicenda iniziata agli albori della grande industrializzazione di Stato nel Sud e approdata infine nelle mani dei privati, la famiglia Riva, messa spalle al muro, con modalità che assomigliano nella forma ad un esproprio, da un intervento della magistratura molto discusso.

Le acciaierie di Taranto sono tra i più importanti impianti del mondo, molto appetibili per i nuovi signori internazionali dell’acciaio. Fermare l’area a caldo significherebbe mettere a rischio il reddito di 14 mila famiglie e di un indotto ancor più rilevante sul piano sociale ed economico, che riguarda mezza Italia. Per ora, lo ha chiesto solo il gruppo Cinque Stelle al Parlamento europeo, ma il tema è tra quelli previsti nella tela di Penelope programmatica di Salvini e Di Maio. Non si sa quale sarà il punto di caduta, ma l’ipotesi chiusura è sostenuta dai grillini pugliesi in cambio di lavoro per la bonifica del sito. Se dovesse finire così, il conto, per l’Italia, sarebbe molto salato, perché perderemmo un altro pezzo della nostra economia, il retrovia della seconda potenza industriale d’Europa, e perché il giochino costerà netti 3 miliardi, a cominciare dai 900 milioni messi sul piatto dai contribuenti per tenere aperti gli impianti. Il parallelo con Alitalia evoca brividi sinistri.

Per il momento, la gestione costa la perdita di un milione al giorno, e a giugno i soldi finiranno e soprattutto non entreranno 1,8 miliardi che la cordata franco indiana è pronta a pagare. Senza quei soldi saltano aziende e aziendine creditrici e non si riavvia il ciclo industriale. E saltano investimenti ambientali per 1,2 miliardi e tecnici per 1,1.

Il ministro Calenda e il sindaco di Taranto, che già hanno dovuto fronteggiare il fuoco amico del Pd pugliese guidato sulle barricate dal governatore Emiliano, hanno nel frattempo preso le porte in faccia del sindacato che ha interrotto le trattative in attesa del nuovo Governo. La garanzia di occupazione era totale per 10 mila operai su 14 mila, e protetta da misure alternative per i restanti, ma il blocco sindacale per ora tiene, anche se la Cisl è contraria all’interruzione e preferirebbe chiudere prima dei responsi del Quirinale. Per fortuna, l’unico a procedere è il piano ambientale, con interventi protettivi miliardari pagati col rientro dalla Svizzera dei capitali della famiglia Riva, non certo con entusiasmo ma sotto la pressione delle misure cautelari. Si sta coprendo l’area più sensibile e questo potrebbe aiutare a risolvere il problema dei problemi: come conciliare il lavoro con la salute di una città.

Certamente, il caso Ilva è anche un caso di buon senso e buona volontà. E la Puglia è un angolo emblematico di certe contraddizioni. È lì infatti che è esplosa ripetutamente la guerriglia per 300 ulivi da espiantare e ricollocare dopo il passaggio di un km sotterraneo di un tubo di mezzo metro di diametro, ultima tappa di un percorso di 1.500 km per portare gas a scaldare e far funzionare il nostro Paese. Ulivi che a quanto risulta stanno bene, mentre nella stessa Puglia, come segnalato da una bella inchiesta di Federico Fubini sul Corriere, sono già andati perduti 11 milioni di esemplari solo nel Leccese, causa Xilella, e l’epidemia sale sempre più a Nord. Milioni di alberi sono stati sequestrati da tre anni ma non abbattuti per far barriera all’infezione. Rimasti lì per «superstizioni e atteggiamenti antiscientifici», scrive Fubini: il danno economico è già di un miliardo, e l’Europa minaccia di chiedere risarcimenti. Forse pagheremo in proventi dell’acciaio, ma solo se salviamo l’Ilva.


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