Di Franco Presicci:
Una voce si è spenta in terra; una luce si è accesa in cielo. Franco Carrozzo non c’è più. Se n’è andato per altri mondi giorni fa, lasciando sbigottito e addolorato il popolo di Martina. Era un gentiluomo, ricco di sani principi e di fede, di umanità e generosità, sempre attento ai bisogni della gente. Dal 1962, sindaco Alberico Motolese, e poi Franco Punzi (molti li ricordano ancora), era stato comandante dei vigili urbani della città dei trulli e del belcanto, suonava bene il pianoforte, amava la musica lirica. Non mancava mai con la moglie Rosa alle rappresentazioni nel cortile del Palazzo Ducale e altrove. Aveva scritto un libro sulla polizia locale di Martina, pubblicato dalla casa editrice Schena di Fasano e amava leggere, comprese le tesi di laurea dei figli degli amici. Aveva stile, era discreto, rispettoso, sempre vicino alla gente e pur essendo nato a Taranto, adorava Martina Franca. Non ammetteva la parola vuota, stava lontano dalle malelingue. Era ligio al dovere; con lui in ufficio si respirava aria serena.
Andato in pensione andò a vivere in campagna sulla via per Ceglie e si faceva delle belle pedalate fra i tratturi per tenersi in forma. Aveva un campo da bocce, dove signoreggiava il figlio Leonardo, ma anche lui qualche tiro lo faceva, nelle ore in cui non aveva un libro in mano. Lesse il saggio di Del Boca sul Risorgimento e durante una delle mie tante visite m’invitò a commentarlo con lui. Non assumeva mai modi autorevoli che in altri potevano essere dettati dal ruolo: era alla mano, aveva un sorriso dolce., amava i toni bassi e il dialogo costruttivo. Era comprensivo. Il suo emblema era il rispetto. Concepiva il compito del vigile come un incontro con il cittadino. Il vigile è il biglietto da visita di una città. E’ quello che la rappresenta. La divisa non deve stabilire un distacco, ma un avvicinamento. Il vigile è un esempio. Anche di questo ci capitava di parlare in quei pomeriggi d’estate; e di parlare di Taranto, la nostra culla, ricordando li riti, la ronda che controllava i marinai in libera uscita e il cannone del Castello che sparando tre colpi imponeva il ritorno in caserma. Parlare con lui era un piacere; ascoltandolo si assumevano pillole di saggezza. Che poi l’interlocutore fosse in grado di farne uso è un’altra storia.
Un anno, tantissimo tempo fa, scesi in quell’oasi di Martina in treno, quindi non avevo l’auto per spostarmi. Non ci pensò due volte: “Ti presto la mia 500 per tutto il periodo che ti serve”. Feci fatica ad accettare: temevo di approfittare della sua disponibilità. Lui intuì ed insistette. Così potetti muovermi per le vie di Martina, andare da via Mottola al Chiancaro e anche a Taranto con quel gioiello.
Era il mio gemello. Eravamo nati nello stesso giorno, nello stesso mese, nello stesso anno. C incontrammo al Collegio Manzoni del professore Agrusta, in corso Umberto di fronte all’Istituto Magistrale “Livio Andronico” e vicino alla chiesa di San Pasquale. Avevamo 11 anni. Lui era un ragazzo disciplinato, quieto, diligente; io una specie di Giamburrasca: Lui non prese mai una punizione, io finivo spesso senza pranzo con il “sequestro” del cestino. Il professor Agusta era un insegnante severo, intransigente, bravo e coltissimo. Tanto che, quando la mia famiglia decise di rifugiarsi sul Chiancaro nella campagna dello zio prete per sfuggire ai bombardamenti su Taranto, io e mio cugino Enzo andavamo a prendere lezioni a casa di quell’anziano educatore. Negli anni l’ho spesso ringraziato nei miei pensieri per averci insegnato come si deve la lingua italiana e quella latina. Poi io e Franco Carrozzo prendemmo strade diverse e non ci incontrammo più per anni.
La fortuna volle che una mattina intercettassi un uomo in divisa da comandante dei vigli attraversare piazza Roma e imbucandosi nell’edicola di Paolo. Sulle prime non mi sembrò lui, poi entrai anch’io nella tabaccheria per comperare un libro sul brigantaggio, e gli chiesi: “Scusi, lei è…”. Gli esplose un sorriso e mi abbracciò. Era proprio lui, Franco Carrozzo, che avevo conosciuto a Taranto al primo piano di corso Umberto sopra l’Agenzia Viaggi di Ausiello, quasi dirimpetto a piazza Garibaldii. Ci scambiammo notizie sulle nostre vite e sulle nostre professioni, sulle nostre famiglie, sulle mogli e sui figlioli. Lui aveva Lorenzo, ingegnere, e Norma (nome ispirato dall’opera lirica), medico; io Gianluca. Tutti bravissimi ragazzi.
Che gioia! Ritrovavo un compagno di scuola, poi diventato amico, schietto, affettuoso, ospitale: nel frattempo io avevo spianato il mio carattere, pur rimanendo un po’ goliardico. Si conobbero le mogli, noi i suoceri di Franco e i figli, giocavo a bocce con Leonardo, osservavo le rondini che planavamo sull’acqua della piscina e riprendevano il volo, i trulli compatti, ben sagomati, spaziosi, testimoni della civiltà contadina.
Ogni volta che con mia moglie Irene andavo da Franco e Rosa era una festa e andando io godevo il paesaggio, i vigneti gravidi, gli ulivi dallo zoccolo duro, i mandorli e passando vedevo la gente seduta a lunghe tavolate all’ombra del fico. Poi le gambe cominciarono a cedere e io non trovavo nessuno disposto a rinunciare agli impegni per portare a spasso un vacanziere avido di incontri affettuosi, di compagnie che trasmettevano serenità, pace , sentimenti edificanti, che sapevano accogliere a braccia aperte. Telefonavo e ogni volta era una promessa. Telefonavo anche da Milano. L’ultima volta, mesi fa, Rosa mi ha detto: “Franco è vicino a me, sta sentendo”. E io al termine della telefonata, ho abbassato la cornetta con il sospetto che non stesse bene.
Cominciai ad avere paura del telefono. Poi giorni fa apro Facebook e un manifesto funebre mi spezza il cuore. Franco Carrozzo era scomparso. La memoria si spalanca, i ricordi scorrono, righe di pianto bagnano le gote: quanta parte di me se n’è andata via? Un impulso: prendere l’aereo e volare giù. Ma chi sarebbe venuto a prendermi a Bari o a Brindisi? E le gambe? Non posso più fare affidamento su quelle e il bastone non basta più.
Adesso mi manca tanto, il comandante. Mi viene voglia di alzare lo sguardo al cielo, osservare il firmamento nel tentativo di individuare la stella che porta il nome di Franco. Impresa difficile, non ci è mai riuscito nessuno. Eppure è lì che adesso brilla il comandante. Con tutta la sua fede, il suo amore per gli altri oltre a quello per la sua famiglia; non può che essere che in quella volta, in quel prato luminoso con tanti puntini rutilanti, palpitanti. I ricordi fluiscono, sono come un ruscello che scende gorgogliando dai monti con acqua limpida. E pura. E mi ricompare lo scenario della masseria Russoli con gli asini che seguendo il capobranco ci vengono incontro e si lasciano accarezzare e Franco che sfodera la macchina fotografica e punta l’obiettivo, Ci commuovemmo ascoltando i richiami di due asini (uno in un recinto,l ’altro in un trullo buio) pronti all’incontro d’amore. Esaltammo la dolcezza nel maschio per convincere l’amata. E un altro ricordo s’impone: quando gli dissi che volevo intervistare Alessandro Caroli, mi regalò una foto che ritraeva lo scrittore, musicologo, filosofo… che aveva dato il primo fiato al Festival della Valle d’Itria, ormai famoso e celebrato in tutto il mondo.
Com’erano risposanti, ristoratrici le domeniche trascorse da Franco Carrozzo, con altri amici, qualcuno arrivato da Milano (un alto dirigente di banca), oltre a me, e con i suoceri di Franco, maestri di ospitalità. La nonna sempre sollecita nell’offrire i dolcetti fatti in casa per fare onore all’ospite. Una famiglia in armonia perfetta, come un’orchestra ben diretta, senza un violino che stoni. I ricordi pesano, spesso, come in questo caso, suscitano sofferenza. Quando un amico s’imbarca sull’ultimo treno, quello che non prevede ritorno, si porta via anche un pezzo di te. Ciao, comandante. Ovunque tu sia, ti raggiunga il mio addio, accompagnato da una goccia caduta dagli occhi.