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Chechele, da Apricena la ristorazione pugliese a Milano e la fama oltre l’Italia Un ritratto di Michele Iacubino

Chechele

Di Franco Presicci:

Gaetano Afeltra, amalfitano profondo conoscitore di Milano, già vicedirettore de “Il Corriere della Sera, direttore de “Il Corriere d’Informazione”, quindi pilota del “Giorno”, lo chiamava “il pugliese”; Mario Dilio, barese tornato giù dopo essere stato capo ufficio stampa dell’Alfa Romeo, autore di libri sul Mezzogiorno, gli aveva attribuito il titolo di ambasciatore della Puglia a Milano; il pittore Filippo Alto, anche lui figlio del capoluogo pugliese, diceva che aveva fatto più lui per la nostra regione e per la stessa Milano che chiunque altro. E avevano ragione.

Chechele, al secolo Michele Iacubino, aveva nel sangue la Puglia ed era grato alla città che lo ospitava. Era un uomo semplice, dal cuore in mano, aveva slanci caritatevoli (faceva sedere al tavolo chi aveva bisogno e gli dava anche una pagnotta da portare con sé). Accoglieva a braccia aperte i pugliesi e con sorrisi aperti e comunicativi attori e cantanti, conduttori televisi e medici, poliziotti, giornalisti, che sbirciano dalle fotografie attaccate alle pareti dell’ingresso della sua “Porta Rossa”, il ristorante che si trova a un passo dalla stazione centrale.

Veniva da Apricena, un centro della provincia di Foggia caro a Federico II, che scelse quel luogo come residenza di caccia. Chechele ci tornava per un mese nel periodo estivo, con amore e tanti ricordi, compresi quelli della sua iniziale attività di fornaio. Un giorno fece i bagagli e salì al Nord assieme a Nennella, sua moglie, una bellissima signora socievole, cordiale e maestra nel governare i fornelli. Era lei la regina della cucina del ristorante, messo su da quest’uomo dinamico, appassionato, schietto e ricco d’ idee. La prima volta che entrai nel suo locale, disposto su due
piani, fra trulli e “capasoni”, respirai una riposante aria di Puglia. Conobbi Chechele negli anni ‘70, nel corso di una manifestazione pugliese al Cida (Centro informazioni d’arte), in via Brera, che richiamò oltre 400 corregionali, tra cui Domenico Porzio, scrittore studioso di Borges, capo ufficio stampa della Mondadori e assistente del presidente Arnoldo; Vincenzo Buonassisi, aquilano amico della Callas e di altri personaggi della musica lirica; il martinese Guido Le Noci, che aveva la Galleria “Apollinaire” proprio di fronte, per cui on dovette faticare molto per portarvi alcune tele di pittori d’avanguardia, da lui lanciati. Verso la fine della manifestazione vidi arrivare Chechele con una scorta di camerieri carichi di ogni ben di Dio: delizie derivazione Puglia. Si trovava ad Apricena, dove aveva ascoltato una
mia conversazione alla radio nazionale,con Mario Azzella, giornalista e documentarista della Rai, e aveva raggiunto Milano. Soltanto Lambros Dose, responsabile del Centro, era al corrente della mobilitazione dell’”ambasciatore”, che
gli aveva telefonato per sapere se si fosse già provveduto per il “buffet”.

Dopo qualche giorno andai con Filippo Alto alla “Porta Rossa” e nel corso di una conversazione Chechele mi confidò il suo desiderio di dire grazie a Milano per avergli dato spazio e ispirazione. “Puoi sponsorizzare un premio di giornalismo dedicato al capoluogo lombardo”, risposi. Chechele accolse il sugertimento e nacque il Premio di giornalismo, la cui prima edizione andò a Giovanni Valentini, barese, direttore de “L’Europeo” a 29 anni; la seconda a Gino Palumbo, al comando della “Gazzetta dello Sport”, che grazie a lui aveva più che triplicato le vendite; la successiva a Franco Di Bella, che guidava il quotidiano di via Solferino, e ad Alberto Cavallari, corrispondente da Parigi dello stesso tempio della carta stampata. Il Premio ebbe subito successo. Ne parlavano tutti i giornali e tutte le televisioni. In giuria personaggi di spicco: Ugo Ronfani, vicedirettore de “Il Giorno”; Alberico Sala, poeta consacrato; Edoardo Raspelli, autorevole critico gastronomico (specializzazione nata con lui); il grande pittore Giuseppe Migneco; il critico d’arte Raffaele De Grata; Mario Oriani, inventore di “Amica”… Alle riunioni della giuria Chechele assisteva solitario, comodo a un tavolo messo in un angolo vicino alla porta. Lo ricordo alle due di notte, la giuria ancora febbrile e lui insidiato da Morfeo.

La sera della consegna del Premio a Di Bella e a Cavallari c’erano, fra gli altri, il sindaco Carlo Tognoli e Giovanni Testori, curatore delle pagine letterarie del “Corsera” e autore di libi importanti, tra cui “Il Ponte della Ghisolfa” e “Il
Fabbricone”. Molti rimasero sorpresi da quella presenza, quasi mai notata in altre serate voltesi a Milano. “Il Giorno” titolò il mio articolo “”Un Premio nato in cucina”. Chechele non c’è più e ogni tanto rivedo la sua espressione incantata e sorpresa, Era orgoglioso di quella giuria, che bolliva per ore, incrociando discussioni mai pacate. Ad accendere il fiammifero era Paolo Mosca, direttore di “Novella 2000” e di “Play Boy”. Uomo saggio, Chechele non interveniva mai, e da quelle battaglie intuiva il nome del vincitore. Nel 1978 fu “La Porta Rossa” il fonte battesimale de “Il Rosone”, il periodico fondato da Franco Marasca, docente di lingue straniere trasferitosi a Milano da Troia, definita la regina delle chiese romaniche pugliesi. Antonio Velluto, capo servizio alla Rai e assessore comunale all’Edilizia popolare, troiano anche lui, illustrò il periodico, che avrebbe ospitato temi pugliesi con uno sguardo alla metropoli lombarda. Anche in quell’occasione Chechele, una mano poggiata sullo spigolo di un tavolo e l’altra piazzata su un fianco, come il gomito di una giara, stette a guardare ammirato e contento del suo locale diventato un centro di raccolta di intellettuali, oltre di turisti e gente di Milano.

Poi Chechele, oltre a un ristorante sul Gargano, ne aprì un altro in viale Piave nella città di Carlo Porta. E anche lì volle istituire un premio dedicato alla Puglia, affidando la presentazione della cerimonia di consegna a Daniele Piombi. Una volta finì sul “Times” e ovviamente ne andava fiero. Era l’uomo delle sorprese. Partecipavo a una serata di carnevale al dopolavoro ferroviario e lo vidi comparire con due o tre camerieri che distribuivano il suo pane ai commensali. A me e alla mia compagnia riservò la pagnotta con la forma più bella. Anche a San Severo ne fanno di quel tipo. Una volta un professionista della categoria ne volle infornare uno di grossa taglia per la Mostra dell’Artigianato e al momento di tirarlo fuori era diventato così voluminoso che dovettero allargare la bocca del forno.
Chechele, uomo dal “multiforme ingegno”, sempre pacato, il sorriso amabile dietro i baffetti neri, con quel tovagliolo su una spalla, spesso parlava con lo sguardo.

Sempre attento, le orecchie tese, comunicativo, cordiale. Con Filippo Alto, Chechele, Nennella e la figlia Antonietta rimasi fino alle 2 di notte seduto a tavola da Chechele asieme a Giuseppe Giacovazzo, giornalista, scrittore, direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, amico di Paolo Grassi. Poi Peppino consultò l’orologio, uscimmo e facemmo una camminata verso piazza della Repubblica prima di andare a dormire. L’aria era fresca, e invitava a fare due passi per quel pezzo della Milano notturna, più tranquilla, più respirabile. Giacovazzo ci dette alcuni consigli sul Premio, in cui era membro della giurìa, con il noto pittore Ibrahim Kodra presidente.

“Che uomo, Chechele! e che pugliese! La notte non dorme ma pensa a quello che può fare il giorno dopo”, commentò. Erano in tanti ad avere la stessa stima di quella persona intelligente, buona, che aveva costruito pezzo  dopo pezzo il suo castello. Tutti a Milano conoscevano “La porta rossa”, in cui, oltre ai titolari, ai clienti e al personale, esultarono per i mondiali 90, ai quali Chechele dedicò alcuni piatti. Alla “Porta Rossa” c’era sempre un’atmosfera di festa. C’era sempre qualcuno da festeggiare. Anche Carlo De Martino, presidente dell’Ordine Giornalisti lombardi, fu ricevuto con tutti gli onori la sera in cui valicò l’ingresso della “Porta Rossa”. Era accompagnato da Franco Abruzzo, che lo sostituirà nell’incarico. Chechele era amico di Peppino Strippoli, che venuto da Cerignola aprì un
ristorante dietro l’altro, tra cui ‘Ndèrr’a la lànze” vicino all’Università Statale; e poi il supermercato del vino a Saronno, dove, in tempo di vendemmia, collocò una grossa botte, in cui delle deliziose ragazze pestavano l’uva con i piedi. Presente il regista Gillo Pontecorvo, che accolse le lamentele di Strippoli per il vino venduto nei contenitori di cartone. “Non si può tenere il nettare in quelle confezioni, Gillo. È come tenere l’oro sottoterra. Ti rendi conto?”, esplose. Una mattina ci andai con Chechele e Strippoli lo ricevette come se fosse il principe di Monaco. Grande Chechele! Meritava tutta l’ammirazione che gli tributavano.


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