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Taranto e la ninfa trascurata Aqua Nymphalis

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Di Augusto Ressa*:

Della storia antica di Taranto restano poche testimonianze all’interno del tessuto urbano, risparmiate dalla furia distruttrice che caratterizzò i primi anni della edificazione della città post unitaria, seguita poi dalla massiccia speculazione edilizia negli anni 60 e 70 del secolo scorso. I resti del tempio dorico del VI secolo a.C. in Piazza Castello costituiscono l’esempio architettonico più rappresentativo ed evidente della Taranto greca, mentre altri importanti resti sono inglobati all’interno di edifici di epoca successiva (vedi ad esempio i resti di un tempio greco del V sec. a.C. al di sotto della chiesa di San Domenico, le tante tombe a camera all’interno di edifici del ‘900, la Domus nel cortile di un condominio di via Nitti) o sono collocati all’interno di parchi archeologici (Collepasso,  Parco delle Mura Greche), consistenti qui in strutture prevalentemente interrate, scarsamente distinguibili dall’esterno perché poco affioranti dal piano di campagna. Altri resti archeologici, di varia provenienza, sono sparsi in aree pubbliche in maniera quasi casuale (villa Peripato, Giardino Caduti del Lavoro) , in attesa di opportuna valorizzazione, privi di apparati didascalici.

Screenshot 20201227 075414Una misera sorte è stata assegnata ai resti dell’acquedotto denominato “Aqua Nymphalis” che approvvigionava la città romana, provenendo da  Saturo, luogo del mito di Taras e della madre, la ninfa Satyria, e sfociando presumibilmente all’altezza di piazza Ebalia.

Di questa importante opera di età imperiale si conservano in città cospicui resti delle murature di sostegno in opus reticulatum sulle quali si impostavano gli archi del tratto emergente dal terreno. Inseriti in aiuole che fanno da spartitraffico lungo il Corso Italia, da via Ettore d’Amore a via Liguria, questi importanti lacerti murari sono quasi invisibili, nascosti dalle auto che parcheggiano su entrambi i lati dell’aiuola che li contiene, e per i pochi che ci fanno caso, sono percepiti perloppiù come delle fastidiose rovine che determinano un inutile restringimento della carreggiata, in una città disegnata e cresciuta, fin’ora, a misura, appunto, di auto.

Screenshot 20201227 075133A poco valgono i grandi cartelli posti all’inizio e alla fine del povero acquedotto, che raccontano che ci troviamo di fronte ad uno dei monumenti di un  Percorso Archeologico il cui progetto vede coinvolti Presidenza del Consiglio dei Ministri, Regione Puglia e Comune di Taranto, se il primo tratto, che è fra l’altro il  più integro,  è nascosto da un lato dalle auto parcheggiate, e dall’altro da una compatta schiera di cassonetti per i rifiuti solidi urbani. Certo questa è l’immagine (che vogliamo ritenere ormai superata) di una città che fino a ieri non si è molto amata, e che solo adesso incomincia a conoscere in maniera diffusa la propria storia e scopre di essere custode di un importante patrimonio culturale e monumentale. E che su questo patrimonio può puntare per liberarsi dalla dipendenza dalla grande industria. Ma il patrimonio va rispettato e valorizzato, e non mortificato, le auto non devono parcheggiare davanti ai resti di un acquedotto di età imperiale, né sono più tollerabili quei cassonetti. Credo che i tempi siano maturi perché sia attuata una corretta azione di valorizzazione di questo monumento, peraltro dal nome bellissimo, Aqua Nymphalis, e ritengo che tale azione possa costituire un ulteriore significativo banco di prova per una città che punta, a buon diritto, ad essere designata Città della Cultura 2022,  sì da rendere finalmente evidente, qui come altrove, quanto sia  cambiato il clima, per citare il Primo Cittadino, istauratosi fra i suoi abitanti e la propria storia.

*architetto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


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