Il 28 settembre 2003, alle tre di notte circa, l’Italia tranne la Sardegna rimase al buio. Nelle prime ore si ipotizzò di tutto: attentato terroristico di Al Qaeda, colpo di Stato, altre pericolosissime versioni dell’accaduto. Nel giro di qualche ora si scoprì la reale ragione: un ramo si spezzò e causò, in Svizzera, l’interruzione della linea elettrica che riguardava, evidentemente, la rete italiana.
Fu, per chi scrive, un’esperienza indimenticabile dal punto di vista professionale. In onda su Radionorba dall’alba, quella domenica. Nell’etere c’era, a disposizione dei cittadini, solo la Rai o appunto, dalle Marche alla Calabria, l’emittente pugliese. Non c’erano i sistemi di comunicazione odierni e, senza una radio a pile, sarebbe stato impossibile ottenere qualsiasi informazione (le linee telefoniche funzionavano, comunque). Si diede luogo ad una trasmissione in cui vennero accompagnati i cittadini alla riaccensione, città per città, palazzo per palazzo. Nel pomeriggio, l’ultima città d’Italia in cui tornò la luce fu Brindisi: eppure era “seduta” sulle centrali elettriche.
Cosa significò, nella valutazione di oggi passati venti anni, quella vicenda informativa sul blackout nazionale? Fu il monopolio vero dell’informazione, parlare a tutti senza che nessuno potesse smentire. Raccontare qualsiasi bugia sarebbe stato possibile senza contraddittorio. Ecco la necessità del pluralismo. Erano gli inizi della messaggistica e gli ascoltatori della radio intervenivano, con sms, dando le loro valutazioni ed informando a loro volta, della riaccensione nelle varie zone delle varie città. Con educazione. Quella che manca nei social network: oggi il blackout è lì.