Prima andò all’Ilva. Poi incontrò la popolazione di Taranto, in piazza. Quindi le coppie di sposi, i seminaristi. Il 28 ottobre 1989, a Taranto, la prima deuue due giornate di visita di Karol Wojtyla nel territorio. La mattina dopo, domenica, la celebrazione a Martina Franca e infine di nuovo a Taranto, la messa allo stadio “Erasmo Iacovone”. Le parole di Karol Wojtyla, papa Giovanni Paolo II, alla popolazione di questo angolo della Puglia: sono di venticinque anni fa, potrebbero tranquillamente essere di stamattina. L’attenzione alla persona, all’ambiente e al lavoro, alla famiglia. Ciò che in venticinque anni, però, sostanzialmente non è stato fatto. Esempio: il papa, un quarto di secolo fa, parlava per il siderurgico tarantino della necessità di “indilazionabili ripensamenti”.
In queste settimane, molte le manifestazioni commemorative, fra funzioni religiose e iniziative culturali e naturalmente la celebrazione ufficiale da parte della curia tarantina. Da qui, la pubblicazione dei discorsi di Wojtyla, fra oggi e domani. C’è il copyright vaticano, è vero: ma non la prendiamo come violazione perché sono pezzi di storia, e anche di cronaca, in particolare del territorio. Il Comune di Martina Franca, molto opportunamente, ha provveduto alla ristampa di quello del 29 ottobre 1989. Di seguito il discorso di papa Giovanni Paolo II all’Ilva:
VISITA PASTORALE A TARANTO
INCONTRO DI GIOVANNI PAOLO II
CON I LAVORATORI E I DIRIGENTI DELL’ILVA
Taranto – Sabato, 28 ottobre 1989
Cari amici, fratelli e sorelle.
1. A voi il mio saluto deferente e cordiale. È stato mio preciso impegno cominciare qui, tra voi, la mia visita pastorale in terra ionica. Siete infatti voi, lavoratori, abitanti di Taranto e della provincia o provenienti da tutta la Puglia, e perfino da varie regioni italiane e dall’estero, il primo motivo della presenza del Papa nella vostra città. In questo momento e da questo stabilimento il mio pensiero va a tutti i lavoratori che, in questa area del sud d’Italia, così provata e pur così ricca di potenzialità, vivono le speranze e le delusioni del lavoro moderno.
Ringrazio per i cortesi indirizzi di saluto che mi sono stati rivolti dai rappresentanti del governo italiano, della direzione aziendale e di tutti i lavoratori. Ho ascoltato con attenzione gli accenni da essi fatti alle difficoltà della situazione presente e alle ansie che si nutrono per il futuro. Sono qui per dirvi che partecipo intimamente a queste vostre preoccupazioni.
Ho seguito giorno per giorno le vicende delle ultime settimane e, pur senza entrare nel merito delle questioni sindacali che sono state all’origine della recente vertenza, desidero esprimere soddisfazione per la soluzione positiva che essa sembra avere finalmente raggiunto. Purtroppo, i problemi che interessano il settore siderurgico sono oggi particolarmente complessi e giustificano le apprensioni che voi manifestate, pensando alle ripercussioni che ogni riduzione di posti di lavoro ha sulle vostre famiglie e sulle prospettive dei giovani, in attesa di inserirsi attivamente nel ciclo produttivo.
2. La Chiesa non può restare indifferente di fronte a questa situazione, che coinvolge tanti suoi figli, ponendo una pesante ipoteca sul loro presente e sul loro futuro. Nella questione sociale entrano sicuramente fattori di ordine economico, tecnico, politico; essa, però, ha innanzitutto risvolti direttamente umani, che non possono essere posposti agli altri nella ricerca di una soluzione adeguata. Il Papa è qui per ricordarlo a quanti debbono dare il loro contributo all’adozione di opportune misure per fronteggiare la crisi.
Questo stesso intendimento mosse il mio predecessore, Papa Paolo VI, a venire tra voi, vent’anni or sono, quando questo centro siderurgico era in piena espansione. Nel Natale del 1968, fra questi altiforni, egli volle ancora una volta sottolineare con forza la necessità di saldare tra loro il progresso tecnologico e la ricerca della giustizia, nella prospettiva del messaggio di “Gesù, l’operaio profeta, il maestro e l’amico dell’umanità, il Salvatore del mondo” (Insegnamenti di Paolo VI, VI, [1968] 695). Alcuni tra voi, forse, sono stati presenti allora e possono aiutarci a ricordare quell’evento, che fece di Taranto il podio per lanciare, “come uno squillo di tromba risonante nel mondo”, un rinnovato richiamo all’insopprimibile aspetto etico della questione sociale.
3. Cari amici, nella scia del mio grande predecessore, vengo oggi ad incontrarvi, portandovi lo stesso messaggio da parte di Cristo e della Chiesa.
Questo impianto, in cui ci troviamo, e le officine, nelle quali voi lavorate e trascorrete buona parte delle vostre giornate, sono un segno eloquente delle capacità dell’uomo di trasformare la materia prima per adattarla alle proprie necessità. Lo stabilimento, che attualmente impiega circa sedicimila persone, si avvia a celebrare i trent’anni della posa della prima pietra. È un traguardo che, mentre registra innegabili successi, sollecita opportuni, indilazionabili ripensamenti. Non solo dei metodi operativi e delle strategie di mercato – cosa già in corso con la creazione della Società ILVA – ma anche, e soprattutto, della concezione di sviluppo, a cui ci si è, nel passato, ispirati.
Tuttavia, promuovere la capacità produttiva di un complesso industriale non è tutto, e non è neanche quello che più conta. Il valore e la grandiosità di un impianto di produzione, sia pure così impressionante come è questo vostro, non devono misurarsi unicamente con criteri di progresso tecnologico o di sola produttività e redditività economica e finanziaria, ma anche e soprattutto con criteri di servizio all’uomo e di corrispondenza a ciò che la vera dignità del lavoratore, in quanto immagine di Dio, richiama ed esige.
4. Ora, qual è, da questo punto di vista, la realtà attuale dell’ILVA di Taranto?
Vi è, anzitutto, la pesante situazione relativa all’occupazione, aggravata dal ridimensionamento della capacità produttiva dell’impianto, nel quadro di una crisi più generale concernente la produzione dell’acciaio. Vi sono i fenomeni connessi del pre-pensionamento e del ricorso alla cassa integrazione, rimedio, quest’ultimo, parziale e temporaneo in relazione alla mancanza o alla stasi del lavoro. Non mi sfuggono di certo le complesse componenti della crisi siderurgica, che è fenomeno di dimensione internazionale. Non posso però non rilevare le gravi conseguenze di questa situazione per gli operai stessi e per le rispettive famiglie, che dal loro lavoro traggono il necessario sostentamento.
Vorrei far sapere a quanti vivono tale situazione, uomini e donne, ma in modo particolare ai giovani, i quali non riescono ad inserirsi in un’attività adeguata alla loro preparazione, che sono vicino ad ognuno dei disoccupati e dei cassintegrati, e che porto loro la comprensione e la solidarietà di tutta la Chiesa.
Vi è, inoltre, la grave situazione ecologica, con le sue preoccupanti ripercussioni sulla natura, sul patrimonio zoologico ed ittico e sulla vita quotidiana delle persone. Il campanello di allarme è già scattato, anche qui a Taranto. Occorre ora far sì che le decisioni dei responsabili ne tengano conto, cosicché l’ambiente non venga sacrificato ad uno sviluppo industriale dissennato: la vera vittima, nel caso, sarebbe l’uomo; saremmo tutti noi.
5. Quando si tratta di ripensare una situazione come questa, carissimi, due sono i criteri morali di fondo, di cui si deve tener conto.
Il primo è la dignità della persona umana, creata ad immagine di Dio: “L’uomo, infatti, è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale” (Gaudium et Spes, 63).
Il secondo è la dignità stessa del lavoro, che è parte della vocazione dell’uomo chiamato da Dio a realizzarsi e perfezionarsi come persona (cf. Laborem Exercens, 4). All’uomo non è dato altro mezzo per sviluppare i talenti e le qualità ricevute, oltre che per guadagnarsi la vita.
Ora, tutto questo significa che il lavoro deve essere considerato non solo come potenziale fonte di beni economici, ma anche come occasione di arricchimento spirituale in un processo di crescita verso la pienezza della propria auto-realizzazione.
Per i lavoratori, ciò implica l’impegno morale di adempiere nel migliore dei modi il proprio compito, nella consapevolezza non solo dei propri diritti, ma anche dei propri doveri. Per coloro nelle cui mani è il potere di decidere – dirigenti aziendali, operatori economici, politici – ciò significa che il valore del lavoratore e la dignità del suo lavoro debbono prevalere nelle decisioni, anche e soprattutto in momenti di crisi. Sono gli uomini e non i numeri che contano.
6. È vero che le decisioni circa le finalità e le dimensioni dei complessi industriali e dell’indotto devono oggi essere nel contesto di una pianificazione economica che va ben oltre i limiti della singola città e dell’intero paese: effetto, questo, dell’interdipendenza sempre più stretta, in cui ormai si svolgono i rapporti economici, commerciali e finanziari nel mondo ed in particolare in Europa.
Ma tale interdipendenza ha un risvolto morale di grande valore: quello della solidarietà, che nell’enciclica Sollicitudo Rei Socialis, ho definito come “la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune, per il bene di tutti e di ciascuno” (Sollicitudo Rei Socialis, 38). Questa, in realtà, è la strada per rimediare agli effetti del ridimensionamento. Ciò che non si può mantenere perché l’equilibrio dell’insieme non lo permette, deve venire adeguatamente compensato in altri modi e, magari, in altri ambiti industriali, per servire al bene di tutti, ed in particolare a quello dei più deboli, come i disoccupati, i cassintegrati e quanti cercano il primo impiego.
Le nuove circostanze richiedono da tutti uno sforzo di rinnovata analisi e di creatività, affinché agli uomini e alle donne di Taranto vengano offerte nuove possibilità di lavoro, possibilmente più confacenti alla realtà ambientale in cui essi vivono: le industrie del cosiddetto terziario, ma anche un’agricoltura rinnovata e tutto ciò che può gravitare intorno alla ricchezza del mare.
7. Cari amici, concludo con un augurio di pace e di giustizia, radicato nella buona volontà e nel dialogo costruttivo, illuminato dall’insegnamento sociale della Chiesa e dalle tradizioni di equilibrio e laboriosità della gente del Sud.
So che ogni anno, soprattutto a Natale e a Pasqua, amate realizzare voi stessi un altare e preparare un ambiente in cui radunarvi con l’Arcivescovo, con i vostri cappellani, e spesso anche con giovani del seminario e delle parrocchie vicine. In quell’occasione vi riconciliate scambiandovi gli auguri e la pace, vi alimentate alla sorgente della giustizia e della solidarietà che è Cristo, vi ricordate di chi più soffre e pregate anche per coloro che ci hanno lasciati, a volte in modo drammatico o prematuro.
Il Papa, che oggi condividerà la vostra mensa aziendale, vuole dirvi la sua gioia per questo evento che gli consente di sentirsi idealmente ospite anche delle vostre famiglie, in mezzo ai vostri figli, ai vostri nipoti e ai vostri anziani, soprattutto ai vostri malati.
Questa mensa sarà inoltre, per me e per voi, simbolo vivo di quell’altra mensa, quella eucaristica, nella quale Cristo, donandosi a noi sotto le specie del pane, fa di tutti noi una cosa sola in lui. Sia egli sempre in mezzo a voi, a sostenere il vostro lavoro, ad alimentare le vostre speranze di una vita migliore, a cementare la vostra solidarietà.
E con lui sia Maria, come a Cana, a dirvi di far sempre ciò che egli vi dirà (cf. Gv 2, 5). E ci sia sempre anche san Giuseppe, patrono dei lavoratori, al quale, proprio qualche giorno fa, ho dedicato un particolare documento, scrivendo tra l’altro: “Grazie al banco di lavoro presso il quale esercitava il suo mestiere insieme con Gesù, Giuseppe avvicinò il lavoro umano al mistero della redenzione” (Redemptoris Custos, 22): egli vi ottenga dal Signore i doni che attendete per voi e per le vostre famiglie.
Su tutti e su ciascuno invoco la benedizione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
© Copyright 1989 – Libreria Editrice Vaticana