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Oscuri e la mala Ricordo di un poliziotto pugliese di valore

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Di Franco Presicci:

Lo ricordo, Ferdinando Oscuri. Fisico da Ercole, passo di velluto, stempiato, sguardo volpino, poche parole, acuto. Lo incontravo spesso nel cortile della questura o nel bar di fronte. Chi non lo conosceva bene non aveva alcuna possibilità di avvicinarlo. Salutava e tirava avanti. Parlava del più e del meno con pochi cronisti, quelli che frequentavano assiduamente la questura. Oscuri era un pilastro, stimatissimo, rigoroso, memoria inossidabile. Aveva trascorso tutta la sua carriera a Milano. Aveva collaborato con solerzia ed esperienza con tutti i dirigenti: Mario Nardone, Enzo Caracciolo, Antonio Pagnozzi, Mario Iovine, Vito Plantone, che gli dava del tu e lo chiamava per nome. Un giorno prima di morire Vito lo invitò a casa sua per dargli l’ultimo saluto. Oscuri era anche un uomo di grande umanità. Sempre pronto a saltare dalla sedia per correre sul teatro di un delitto. Era tenace, aveva un fiuto formidabile: dalla tecnica usata intuiva l’autore di un misfatto.
Risolse un omicidio in poche ore. Trattando con gentilezza paterna un apprendista tipografo di 16 anni (“Perchè lo hai fatto?”. “Volevo una donna. Non volevo uccidere, ma solo intimorire”. “Dove hai preso l’arma?”. “Dall’abitazione di un portinaio”. Partì da una cartuccia intercettata sul posto ed, esperto di caccia grossa, individuò subito il tipo del fucile e iniziò una ricerca nelle armerie. Con Mario Nardone in poche ore risali alla donna colpevole di quattro omicidi in via San Gregorio e prese parte agli interrogatori. Un giornalista del “Corriere della Sera” si piazzò per ore sotto luna finestra per captare mezza frase, ma tornò al giornale con il carniere quasi vuoto. Allora non esisteva la sala-stampa, venne istituita in seguito, due ambienti e il bagno all’ammezzato di via Fatebenefratelli, dove si riunivano tutte le mattine i segugi della carta stampata, e gli investigatori non usavano convocare i cronisti per informarli ufficialmente della conclusione di un’indagine o di un arresto importante.
Il mutismo di Ferdinando Oscuri era leggendario. I cani da tartufo del “Giorno” o del “Carriere” aspettavano anche oltre mezzanotte, magari al freddo, con la speranza di poter carpire qualche notizia, ma la maggior parte delle volte rimanevano a bocca asciutta. E allora dovevano fare salti rocamboleschi per racimolare qualche briciola, dopo un interrogatorio. Se però all’ingresso della questura si stagliava la figura di Vito Plantone, qualche chicca la beccavano, se non metteva in pericolo il proseguimento del loro lavoro. Era meglio di niente.
In giro c’erano “boss” e gregari che andavano per le spicce: se un avversario dava fastidio o metteva in discussione il dominio di un capobanda, strepitavano le armi. I regolamenti di conti erano spietati. Oscuri teneva ben annotati nella sua testa nomi, specializzazioni, indirizzi, covi, modi di agire di ogni criminale e spesso agiva da lupo solitario. Aveva un coraggio non comune, era tenace, scrupoloso. Intuita una pista, la percorreva senza sottovalutarne altre. E macinava polvere come un maratoneta della Stramilano.
Le bande a Milano erano tante, determinate e pericolose. Ho memoria degli anni in cui cadevano come birilli uno, due, anche tre malavitosi in un giorno: in una trattoria, su un piatto di spaghetti all’amatriciana; sulla strada (viale Susa, piazza Napoli alle 2 di notte, a un ingresso secondario di un ospedale, nei pressi di una famosa fabbrica…). Uno crollò sul marciapiede, con il corpo circondato da mele e arance, davanti al negozio di un fruttivendolo, come ne “Il padrino” di Francis Ford Coppola, nel ‘72; un altro in una bisca clandestina all’aperto, un altro ancora in un campo di mais di via Selvanesco… E sempre Ferdinando Oscuri in prima fila a tessere la tela tesa ad impacchettare il malfattore. E il portone di San Vittore si apriva senza cigolii, per far entrare il cellulare e si richiudeva, incrementando la sua popolazione.
Oggi molti di quella gente non c’è più: sono morti assassinati, sono in carcere o hanno pagato il loro debito e sono liberi di circolare. Qualcuno, dal profilo romantico e dal comportamento “spara spara” ha ispirato un film. Il capoluogo lombardo è sempre all’erta e l’attività degli investigatori frenetica. Ricordo le stragi: Moncucco, nel ristorante “La Strega” (otto persone ammazzate: una la vittima designata, gli altri possibili testimoni ); via Lorenteggio, quattro vittime; via Mac Mahon; viale Piave, l’Idroscalo…In ogni quartiere rumoreggiavano mitra o pistole, lasciando strisce di sangue sul selciato. La città era spesso turbata dalle sirene delle Volanti. I cronisti del turno di notte passavano ore con l’orecchio al telefono. Appena arrivava la segnalazione di un omicidio correvano come Mennea in una gara. Quante notti hanno trascorso sulla strada al freddo: entrava nelle ossa durante il fattaccio di via Santa Sofia, dove in una ditta di mangime venne ucciso un impiegato e un bel numero di suoi colleghi furono presi in ostaggio. Alla fine, alle 21, dopo 26 ore di trepidazione, il protagonista liberò i prigionieri, uccise una donna e se stesso. Alle 5 del mattino si era presentato Enzo Tortora, chiedendo a me, rifugiato nella cabina di un mezzo dei vigili del fuoco, a chi doveva chiedere se e come poteva parlamentare con l’omicida, per porre fine al dramma. Ricordo Ferdinando impegnato a dissuadere il maresciallo Ennio Gregolin, disposto a catapultarsi nell’azienda da una finestra. E lo ricordo a Figino, quando uno zingaro, entrato con la propria auto in una cooperativa, aveva travolto la titolare, che, avendolo visto già ebbro, gli aveva rifiutato un altro bicchiere. Era una sera di pioggia torrenziale e Oscuri raggiunse la roulotte del colpevole affondando i piedi nel fango. E io dietro di lui.
Poi anche per Ferdinando venne il giorno della pensione, e smise di trottare. I suoi colleghi ogni tanto si riunivano in un osteria e lui non mancava mai all’appuntamento. Come non mancava Francesco Colucci, che avendo accumulato un bel po’ di esperienza in via Fatebenefratelli, divenne prima vicecapo della Squadra Mobile, poi capo della Criminalpol, poi questore a Bergamo, Genova, Lecce, poi prefetto. Ad un incontro conviviale Ercole non si presentò: si era ammalato, peggiorò, costretto sempre a letto. Io andavo a trovarlo spesso e gli tenevo un po’ di compagnia. Senza essere sollecitato, lui parlava dei suoi colleghi, Giannattasio, Farenga, Petronella…, di rapine clamorose, a cominciare da quella di via Osoppo, finita in un libro che Mario Jovine, questore a Venezia, mi indicò mentre lo intervistavo. Indagando su quel colpo, Ferdinando fece uno dei suoi scoop”: trovò nel canale Olona le tute indossate dai banditi nel momento dell’assalto al furgone portavalori. E a uno a uno vennero acciuffati gli autori: il don Giovanni, quello che scriverà un libro sull’impresa…
Una mattina mi telefonò la signora che aveva cura di Ferdinando per dirmi che il mio caro amico se n’era andato. Disse soltanto “Ferdinando…”, e sul volto mi scivolarono le lacrime. Ai funerali c’erano Achille Serra, che arrivato da Roma fece l’elogio funebre, presenti Colucci, Carluccio, Filippi, venuto da Pavia, e tra i miei colleghi Alberto Berticelli del “Corriere della Sera”, giunto in sella alla sua moto. Con Nardone, Plantone, Caracciolo… Oscuri aveva segnato un’epoca, quella dei lupi solitari.
Questo Maigret infaticabile era nato il 24 gennaio del ‘22 a San Ferdinando di Puglia, in provincia di Foggia, ed era entrato in servizio alla Squadra Mobile di Milano nel febbraio del ‘46. Allora la questura non era in via Fatebenefratelli, ma in piazza San Fedele (bombardata durante il secondo conflitto mondiale), nei pressi della Galleria Vittorio Emanuele. Nel capoluogo lombardo era già stata importata la pizza, nel ‘29, nel ristorante Santa Rita, e tutti i poliziotti vi andavano a ordinarla. Ma i meneghini all’inizio non l’apprezzarono. Poi il titolare ebbe un’idea, accompagnando la pizza con un frutto; e fu l’inizio del successo della prelibatezza.
Oscuri era uno dei cervelli della polizia milanese. Aveva cominciato a lavorare con Mario Nardone , detto “il gatto” per la sua capacità di fiutare il vento, e mostrò ben presto di essere fatto di stoffa pregiata. Durante le mie visite evocava il passato con lucidità e precisione. Lo ascoltavo con interesse e piacere, Ricordava persino i dettagli delle tante operazioni. E s’incupì ripercorrendo il giorno della rapina fatta da Pietro Cavallero e dai suoi tre gregari all’agenzia del Banco di Napoli di largo Zandonai. Dopo il colpo, per sfuggire alla polizia subito intervenuta, la banda cominciò a sparare. Sparava freneticamente, spargendo molto sangue. La gente spaventata cercava un rifugio. Grandi cronisti si occuparono di quella tragedia. Per “Il Giorno” anche Guido Nozzoli; per “Il Corriere”, Arnaldo Giuliani, autore di grandi inchieste anche sui fuochi accesi sulla valassina dalle signore della strada. Tanino Gadda, altro grande, quando leggeva Arnaldo, cronista coscienzioso e attento e dallo stile allettante, gioiva. Un giorno, indicandomi un articolo di Arnaldo sulle bische, commentò: “Non c’è niente da fare: Giuliani è Giuliani”.
Non dimentico dunque Ferdinando Oscuri, pugliese che ha onorato la nostra splendida regione. Come non dimenticherò i dirigenti che operarono con lui, primo fra tutti Vito Plantone, che non perdeva occasione per esaltare la sua Noci e il suo centro storico e i prodotti della città: mozzarelle e salsicce. Mi regalò un fischietto in terracotta e lo conservo gelosamente in una vetrinetta.


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