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Caso Moro: «Altri passi avanti se qualche brigatista raccontasse finalmente la sua verità» Gero Grassi e i risultati della Commissione parlamentare sul sequestro e l'assassinio dello statista pugliese e la strage della scorta

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Di Pietro Andrea Annicelli:

Gero Grassi, deputato del Partito Democratico, è stato il promotore della proposta di legge che ha determinato l’istituzione della Commissione parlamentare d’inchiesta sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro. Dopo tre anni di lavori, e l’intenso sforzo personale profuso per diffondere in tutta Italia la conoscenza delle ragioni e delle circostanze della morte dello statista pugliese, per Grassi è tempo di bilanci.

È soddisfatto dei risultati ottenuti dalla Commissione?
«Indubbiamente sì. Siamo partiti da un cumulo di bugie e siamo arrivati al voto unanime del Parlamento alla nostra relazione. All’inizio sarebbe stato arduo anche solo pensare che avvenisse. È andata molto bene».

Quali sono gli esiti della vostra attività di ricerca?
«Ci vorrebbero dei giorni per raccontarlo, dovendo fare la sintesi di settecentomila pagine. Se devo sintetizzare attraverso dei potenziali titoli, dico: in via Fani non c’erano solo brigatisti rossi. L’assassinio di Moro non è avvenuto com’è raccontato nel memoriale Morucci/Faranda perché non ne corrispondono i tempi, i modi, le modalità. Il memoriale Morucci/Faranda è una verità di stato scritto d’intesa con Francesco Cossiga (ministro dell’interno all’epoca del rapimento Moro, nda), Ugo Pecchioli (responsabile dei problemi dello Stato per il Pci, cosiddetto ministro dell’Interno ombra sostenitore della linea della fermezza, nda), parti della magistratura e delle forze dell’ordine. Ci sono elementi certi per dire che le Brigate Rosse non appartenevano solo alla storia italiana, ma a un contesto internazionale. Nell’intera vicenda ci sono una serie di complicità omissive di uomini della magistratura e delle forze dell’ordine. Ci sono delle presenze di brigatisti, mai identificati, in un appartamento di proprietà dello Ior la cui gestione era della Cia e della Loggia P2. È abbastanza?».

Giustino De Vuono è stato l’assassino di Aldo Moro?
«Per rispondere con certezza dovremmo saperlo da chi c’era quando Moro è stato ucciso. De Vuono è morto (ufficialmente: in realtà non si sa nulla della sepoltura, nda), quindi non potrà venire a dircelo. La sua descrizione ci viene da alcune audizioni nella Commissione. Un testimone fa il suo nome, un altro ce lo descrive. Soprattutto c’è una dichiarazione in video di Cossiga, risalente al 2008, in cui dice: ho conosciuto tutti i rapitori e coloro che hanno conservato Moro. Dice proprio così: conservato. Tra questi, aggiunge, non c’è l’assassino, che è morto alcuni anni fa. Se si sommano le sue affermazioni, si arriva a De Vuono. Ma noi, come Commissione, se qualcuno non ce lo dimostra definitivamente, non possiamo affermare in via definitiva che De Vuono abbia ucciso Moro».

È circolata la notizia della presenza nella vicenda del cosiddetto Secret team, per usare l’espressione con cui il colonnello Fletcher Prouty indicò una struttura anticomunista oltranzista nella Cia che faceva capo a Ted Shackley.
«Dagli atti desecretati della Commissione, non risulta».

Ma la presenza di servizi segreti stranieri c’è stata o no?
«È certa. Il delitto Moro è accompagnato dalla presenza di servizi segreti stranieri e nazionali. E non è stato un avvenimento esclusivamente italiano. Se nella palazzina e nell’appartamento romano di via Massimi di proprietà dello Ior, dove potrebbe esserci stata la prima prigione di Moro, c’erano personaggi come il brigatista Prospero Gallinari e altri due brigatisti, il presidente dello stesso Ior Paul Marcinkus, il finanziere libico Omar Yahia legato alla Cia, ai servizi segreti del suo Paese e collaboratore dei servizi italiani, una società legata alla Cia, qualcosa vorrà pur dire».

Intese inconfessabili, insomma.
«Nel caso Moro, però, nessuno di questi soggetti si riunisce e si vede in assemblea per decidere il da farsi. Assistiamo invece ad azioni e omissioni di soggetti nazionali e internazionali dalle quali scaturisce l’evoluzione della vicenda».

Moro poteva essere salvato?
«Se fosse stato protetto, si. Ce l’hanno detto i palestinesi un mese prima dell’agguato di via Fani mettendoci in guardia».

Lo hanno detto al colonnello Stefano Giovannone, capo dei nostri servizi segreti a Beirut, politicamente legato a Moro.
«Si. È del 17 febbraio 1978 la nota con cui Giovannone informa i suoi superiori in Italia di aver saputo da George Habbash, leader del Fronte popolare di liberazione della Palestina, che un’importante operazione terroristica era in preparazione».

Quale significato definitivo può essere attribuito all’espressione «il mio sangue ricadrà su di voi», variamente utilizzata negli anni per attaccare la Democrazia Cristiana e che Moro adotta nella sua lettera alla moglie dell’8 aprile?
«Moro era consapevole che la sua morte avrebbe fatto del male al Paese. Ma non voleva riferirsi a una persona o a un partito. Se avesse voluto farlo, l’avrebbe detto chiaramente come quando ha criticato la linea del Pci o ha criticato il papa, Paolo VI, dicendo che aveva “fatto pochino”. Eliminando lui, si sarebbe fatto del male all’Italia e così, purtroppo, è stato».

La Commissione sarà ricostituita nella prossima legislatura per approfondire ulteriormente il lavoro che avete svolto?
«Prevedere il futuro è difficile. Se potessi, continuerei. Il lavoro fatto è stato notevole, ma ci sono ampi margini di miglioramento».

È realistico ipotizzare, come è stato fatto, che la Commissione non abbia rivelato tutto il possibile?
«No. Chi lo sostiene è un bugiardo, un falso e un ignorante perché non ha studiato le carte. Tutto quello che abbiamo saputo è stato rivelato, tutti gli atti sono stati desegretati e resi disponibili».

Da dove potrebbero venire, quindi, quegli ampi margini di miglioramento di cui ha detto?
«Ad esempio, se qualche brigatista realmente informato dei fatti decidesse di raccontare apertamente la sua verità. Forse si aprirebbe un quadro che potrebbe portare la vicenda ad assumere dei contorni definitivi. Ma un gesto del genere non si può imporre né forzare. Se pensiamo che Valerio Morucci ha negato l’evidenza rispetto ad atti pubblici che lo riguardano, possiamo renderci conto della chiusura a riccio del mondo brigatista sul patto che ha stretto con lo Stato. Se, da quel mondo, qualcuno decidesse di rivelare finalmente la verità, potremmo fare quei passi in avanti che non siamo riusciti a fare».

Quale effetto può avere il lavoro svolto dalla Commissione oltre che di accertamento dei fatti sul piano storico, politico e dei ruoli nella vicenda?
«Si tratta di atti che possono essere penalmente rilevanti se la Procura di Roma decidesse di andare avanti».

Un altro processo Moro?
«Non posso dirlo io: il mio compito finisce con la Commissione. La magistratura dovrà valutare gli elementi emersi e prendersi le sue responsabilità. Se si pensa che brigatisti come Alvaro Lojacono e Alessio Casimirri (condannati all’ergastolo per il coinvolgimento nell’agguato di via Fani, nda) non sono mai stati arrestati, e altri mai individuati se non da noi, si possono trarre le dovute conseguenze».

Intanto la maggior parte dei brigatisti ritenuti coinvolti nel caso Moro è variamente in regime di libertà più o meno condizionata. È l’effetto del patto stretto con lo Stato?
«Esattamente. Aggiungo che, tra questi brigatisti, alcuni non dicono perché non sanno. Altri, perché non vogliono».


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