Di Pietro Andrea Annicelli:
«In Italia nulla è più segreto di ciò che è accessibile a tutti. Per arrivare a quello che ho raccontato della strage di Ustica non sono ricorso a documenti segreti o riservati: ho messo insieme fatti e informazioni che sono sotto gli occhi di tutti». Paolo Cucchiarelli, romano, considerato tra i migliori giornalisti investigativi, alle verità scomode ci ha fatto l’abitudine. I suoi libri sulla strage di piazza Fontana e sul caso Moro hanno fatto epoca, smantellando le verità riduttive ma dissolvendo anche il mistero causato dall’indicibile. Il suo ultimo lavoro pubblicato due giorni fa, “Ustica e Bologna: attacco all’Italia”, La Nave di Teseo, lega i due attentati terroristici più sanguinosi: 166 morti nel 1980 separati da trentasei giorni. E offrendo la sua ricostruzione dei fatti, Cucchiarelli risolve molte contraddizioni e luoghi comuni che da quarant’anni, alimentando il mito, negano la verità.
Né bomba né missile, quindi: attacco non convenzionale. È questo, parafrasando il titolo del tuo libro su Piazza Fontana, il segreto di Ustica che sveli a quarant’anni esatti, oggi, da quell’atto di applicazione di tecniche militari a fini terroristici.
«Nei giorni scorsi la Rai ha ripulito con le moderne tecnologie digitali gli ultimi secondi dell’audio ricavato dalla scatola nera del Dc9. Si può udire distintamente che quel “Gua …” tronco del pilota Domenico Gatti parlando con il copilota Enzo Fontana prima che s’interrompa ogni comunicazione nell’aereo è in realtà la frase: “Guarda! Che cos’è?”. Fino ad allora era stato un volo come tanti. Improvvisamente qualcosa di esterno alla carlinga attira l’attenzione dei piloti. Si è pensato che quelle parole confermassero che stavano vedendo arrivare un missile. Ma è impossibile: un missile vola a velocità supersonica».
Invece?
«In tutti questi anni, dopo che il relitto del Dc9 è stato in larga parte recuperato a oltre tremilacinquecento metri di profondità nel Tirreno e ricomposto prima nell’hangar di Pratica di Mare, poi nel Museo della Memoria a Bologna, nessuno si è accorto che la carlinga era stata intaccata dal fuoco. I finestrini sono fusi verso l’interno. Altrettanto i vetri. L’aereo presenta tracce di bruciature nel rivestimento esterno. Anni fa, a Pratica di Mare, ho fotografato il pannello con la strumentazione che adesso, stranamente, non è più nel relitto: era completamente fuso. Altrettanto la centralina elettrica che gestiva l’energia nell’aereo e i vari controlli elettrici: i periti del Politecnico di Torino concordano che la causa è stata un forte calore dall’esterno. Potrei continuare, ma è abbastanza per affermare che un calore fortissimo ha colpito la parte anteriore del Dc9, in misura maggiore il lato sinistro, fino alla settima fila dei sedili. Un calore dall’esterno che non può essere venuto da una bomba, che avrebbe dovuto trovarsi dentro l’aereo, né da un missile».
Allora che cosa è stato?
«Un attacco non convenzionale da parte d’un jet militare: lo si deduce dalla velocità con cui interseca la rotta del Dc9 nel tracciato radar. L’aereo aggressore supera l’aereo civile e lo sfiamma con il postbruciatore o i postbruciatori: dipende dal modello. Lo scopo è fondere tutti i pannelli elettrici impedendo le comunicazioni e rendere ingovernabile l’aereo. I piloti, probabilmente, fanno appena in tempo a scorgere la sagoma del jet che per un istante incombe sulla carlinga».
Ho verificato: l’acciaio fonde tra i 1370°C e i 1536°C, l’alluminio a 660°C, il vetro intorno ai 1600°C, i polimeri plastici tra i 190°C e 310°C. I gas in uscita dal postbruciatore d’un jet militare possono superare i 1700°C. Considerata la dispersione e la distanza del getto incandescente, lungo anche diversi metri, date le tracce che hai riscontrato sul relitto e ipotizzando una sfiammata di qualche decina di secondi, nella tua ricostruzione c’è, almeno in apparenza, molto di criminale, ma nulla d’inverosimile.
«L’obiettivo prioritario d’una operazione coperta è non lasciare testimoni. Prima di distruggere l’aereo era necessario impedire che comunicasse quello che stava succedendo. La sfiammata con il postbruciatore ottiene questo risultato. Il Dc9 perde progressivamente quota restando integro. C’è, nelle vicinanze, un MiG 23 che gli fa da scorta e che, nel corso del conflitto con gli aerei aggressori, lancia uno o due missili contro di loro che colpiscono involontariamente l’aereo civile reso ingovernabile dalla sfiammata. Ma a causare la sua definitiva caduta è l’ala sinistra spezzata dal peso d’un serbatoio supplementare sganciato dal jet. Quel serbatoio, anni dopo, sarà ritrovato nel Tirreno a oltre tremila metri di profondità in corrispondenza perpendicolare ai plot -12 e -17 del tracciato radar di Ciampino: là dove si pensava di trovare dei frammenti del Dc9».
Ma perché abbattere in questo modo un aereo civile?
«Il carico che il Dc9 trasportava all’insaputa dell’equipaggio e dei passeggeri non doveva arrivare a destinazione. Si trattava d’una quantità di uranio arricchito, imbarcata clandestinamente, che l’Italia stava per consegnare alla Libia. Inoltre, delle barre di uranio destinate al Pakistan per costruire la bomba islamica».
Impressionante.
«La sentenza ordinanza del giudice Rosario Priore, il 31 agosto 1999, dice molte cose che collimano con la mia ricostruzione. Stabilisce che c’era traffico di jet militari intorno al Dc9. È in atto un’operazione coperta: tutti hanno i transponder spenti. Non c’è l’evidenza assoluta della presenza d’una bomba o d’un missile da cui far discendere la distruzione del Dc9. Per Priore resta l’ipotesi della “near collision”, cioè d’una vicinanza tra un jet e l’aereo civile che porta quest’ultimo, trascinato in un vortice d’aria, a perdere il controllo e a precipitare destrutturandosi. Questo scenario non spiega, però, l’improvvisa e immediata interruzione di energia elettrica né la carlinga sfiammata. Soprattutto non spiega la causa che porta l’aereo a destrutturarsi e a precipitare avendo superato i limiti massimi di tolleranza aerodinamica di alcune parti fondamentali come le ali e la coda. Quella causa è l’ala spezzata. E si spezza dall’alto verso il basso, come provano le perizie, e non viceversa come sarebbe dovuto accadere se il Dc 9 avesse perso portanza: l’aereo è sostenuto dall’aria quando viaggia. Ciò che spezza l’ala è il serbatoio supplementare sganciato dal jet killer: a pieno carico, quel serbatoio pesa milleduecento chili. L’impatto porta l’ala solo in quel punto a superare il carico di collasso e a spezzarsi. E avviene per effetto del peso che la colpisce».
Il titolo del libro, legando le due stragi, specifica: attacco all’Italia. Perché? Facevamo il doppio gioco secondo la famosa battuta della moglie americana e dell’amante libica?
«Ma anche triplo, se è per questo! Il problema è che, in quegli anni, cambia la classe dirigente dell’Occidente. Negli Stati Uniti si prepara l’ascesa di Ronald Reagan. Nella Gran Bretagna, nel 1979, era stata eletta primo ministro Margaret Thatcher. In Italia, terra di frontiera tra blocco occidentale e sovietico, ma anche con il mondo arabo, questo cambiamento non viene percepito. Ci chiedono indirettamente di allinearci all’Occidente e di smetterla di giocare su più tavoli nella politica estera ed economica. Ma noi pensiamo di poter continuare a fare quello che facevamo prima. Nel 1978 ci uccidono Aldo Moro, artefice della politica dell’amicizia verso il mondo arabo. Nel 1980 uccidono quella politica, ispirata da Moro, che era via via degenerata in traffici pericolosi come quello dell’uranio trasportato inconsapevolmente dal Dc9 Itavia. È evidente che il rischio di avere la bomba islamica, il Pakistan la realizzerà poi nel 1998, allarmano Israele e la cordata filoisraeliana in Occidente».
Perché consideri il 1980 un anno spartiacque nella storia italiana?
«Perché gli attentati di Ustica e di Bologna disarticolano brutalmente lo Stato e la politica scaturiti dalla Resistenza e dalla Costituente. Il mondo cambia molto rapidamente sulla scia della presa del potere della cordata conservatrice che eleggerà Ronald Reagan alla presidenza degli Stati Uniti nel gennaio 1981. Le stragi di Ustica e di Bologna, in cui ritrovo la presenza di strutture segrete clandestine fortemente intrecciate al terrorismo nell’Europa di quegli anni, rappresentano l’8 settembre di quella fase storica, anche se all’epoca furono in pochi ad accorgersene. Da allora in poi viene meno, nelle nostre classi dirigenti, la lealtà al Paese. Diventa invece prioritaria la subalternità a interessi multinazionali, sovranazionali e privati».
Anche nelle stragi di Ustica e di Bologna, come nella vicenda del rapimento e dell’uccisione di Moro passando per l’eccidio di via Fani, c’è l’ombra di quello che è passato alla storia come Secret Team, cioè la struttura cosiddetta privatizzata della Cia esperta in operazioni coperte.
«Anni fa, quando iniziai la ricerca su Ustica e Bologna, m’imbattei nella presenza di Edwin Wilson. Decisi allora di tornare indietro e scrivere prima i due libri sul caso Moro, convinto che anche lì avrei ritrovato questa struttura clandestina d’intelligence americana così importante nella storia del terrorismo in Italia. E così è stato. Ma il Secret Team non opera da solo negli scenari di Ustica e di Bologna. Lo affiancano le Sac francesi, i mercenari di Bob Denard, a sua volta un soldato di ventura presente nei territori dell’Africa francofona, il Mossad o comunque strutture d’intelligence israeliane».
Perché oggi, Paolo Cucchiarelli a parte, su Ustica e Bologna non c’è un segreto di Stato ufficiale ma permane la negazione della verità?
«Lo Stato si è dovuto piegare a una realtà sovranazionale più potente, per cui non può ammetterlo ufficialmente. Che cosa dovremmo fare se lo Stato ufficializzasse che Paesi come gli Stati Uniti, la Francia, Israele, sono responsabili della morte di 166 cittadini italiani? La ragion di Stato è superiore alla verità, al diritto, ai vivi e ai morti: è la maniera in cui lo Stato difende sé stesso a oltranza e a ogni costo. Non è un caso che le operazioni coperte avvengano senza alcuna bandiera o contrassegno e siano opera di strutture d’intelligence parallele e di mercenari. Se lo Stato ammettesse la verità, perderebbe la sua autorità sui cittadini».
Nelle pagine di commiato hai scritto che il tuo libro è stato il tentativo di un giornalista che appartiene alla generazione che “portava il dolore del tempo che viveva”, definizione di Gianluca Cicinelli. Quanto costano, in termini personali, inchieste come quelle che hai perseguito in questi anni, spesso subendo attacchi personali assolutamente ingiusti e inaccettabili rispetto al valore oggettivo del tuo lavoro?
«Sono inchieste che si pagano con il fisico e con l’anima: parlo di cose molto concrete. Poi ti portano a vedere l’Italia in una maniera completamente diversa. Mi sono occupato del periodo che va dal novembre 1968, quando Aldo Moro fa partire la sua strategia dell’attenzione verso il Partito Comunista Italiano, al novembre 1980, quando il Pci chiude definitivamente la porta al dialogo che c’era stato con il compromesso storico. Quello è stato l’ultimo tentativo italiano di trovare una soluzione democratica alle anomalie della nostra storia. Poi c’è stata la deriva degli anni Ottanta e la mancanza d’una strategia a lungo termine per il Paese. Sono inchieste che richiedono così tanta energia che alla fine ti chiedi se ne valga la pena. L’ho fatto ed evidentemente c’erano delle motivazioni interiori forti e molto personali. Adesso, per un bel po’ di tempo, non vorrei occuparmi più di questi argomenti e lasciare questi libri ai lettori, alle loro riflessioni, alla loro discussione».
l’areo è caduto per un attacco da un caccia che ha colpito il dc 9 anziché un air malta che seguiva la sagoma del dc 9 da Bologna in giù. l’air malta stivava uranio impoverito molto probabilmente scorie radioattive francesi rifiuti delle elettro nucleari centrali francesi che dovevano poi seguire la aerovia a sud di Palermo verso il sud della libia ed essere vendute dal mercato parallelo ombra dei radionuclidi di riprocessare per scopi bellici da paesi medio orientali extra nato, molto probabilmente non allineati e neanche allineati al patto di Varsavia. il caccia ritrovato in sila non era un mig, ma un mirage forse neanche dello stato maggiore dell’aeronautica francese. Il mig ci fu messo come carcassa messo li con un cadavere stipato in congelatori della base aerea militare nato …..pratica di mare…..e senza livrea libica, perché abbattuto e non rivendicato dalle autorità militari libiche in precedenti scontri tra caccia libici e forze aeree interne e/o nato……
Le indagini di Paolo Cucchiarelli, avendo lo stesso adoperato un metodo discutibile, non potevano e non possono portare a risultati credibili. Il suo impegno, invero, non è stato diretto a scoprire cause e motivi del disastro, ma solo a rinvenire elementi, sia pure approssimativi, a convalida di uno scenario individuato in via preventiva tra le ipotesi già esistenti. L’ha fatto verosimilmente nel convincimento che il modello prescelto avesse, più d’ogni altro, il fascino della spày story. Cucchiarelli ha dunque lavorato in senso inverso, essendosi ispirato ad altro scenario (non suo) assunto come canovaccio, sul quale ha poi maliziosamente introdotto modifiche e improbabili forzature. Ha sbagliato, almeno per quel che concerne la vicenda Ustica. I misteri, invero, specie quelli complessi come Ustica, vanno risolti partendo dai dati certi. Poniamo ora, nel caso concreto, che possa essere considerata certa la circostanza secondo cui sia stato un F14 USA l’aereo piantonato dal caporale Di Benedetto (appartenenza costruita sulla semplice presenza di automezzi americani); e supponiamo altresì che il Mig libico sia realmente caduto la notte del 27.6.80 (le indagini di Priore lo collegano verosimilmente al depistaggio del successivo 18 luglio), rimarrebbe ancora irrisolta in queste ipotesi la corretta identificazione del caccia da me visto passare su Catanzaro. Era davvero il Mig 21 che Cucchiarelli ha dato per scontato? L’interrogativo non è da poco. Anzi è qualcosa di estremamente serio, perché se la risposta fosse negativa, l’impalcatura dello scenario propostoci dall’autore crollerebbe miseramente. Orbene, in merito io non ho alcuna perplessità nel sostenere che il Mig 21 riprodotto nel testo a pag. 102 è completamente diverso dal mio caccia. Lo è non solo con riferimento alla struttura del suo aspetto, ma anche e soprattutto per le caratteristiche della coda. Il piccolo aereo (vecchiotto) del mio avvistamento, con le ali aperte nella sua sagoma obbligata, aveva infatti un unico corto reattore posto sulla stessa linea della base del triangolo, era cioè completamente privo di coda. Lo ribadisco: Cucchiarelli ha perso una buona occasione. Peccato!