Il delitto Yara adesso diventa un caso politico nazionale dei più complicati. Lo è diventato stasera e se sia destinato a passare più o meno sotto silenzio rispetto alla sua reale gravità, lo si valuterà nel corso delle ore. Ma per essere grave, è grave. Qui non siamo più alla richiesta di maggior riserbo che aveva rivendicato il capo della procura di Bergamo nei confronti del ministro dell’Interno. Qui siamo a un giudice per le indagini preliminari che pur mantenendo in custodia cautelare in carcere l’accusato, dice che ci vogliono ulteriori accertamenti per convalidare il fermo. Cioè, manco il gip è sicuro.
Il ministro dell’Interno, però, aveva detto che era stato preso l’assassino di Yara Gambirasio. Come dire, si è molto esposto. Ha dato per certa la cosa. Lui, vicepresidente del Consiglio. E con il suo superiore ha anche applaudito le forze dell’ordine per l’operazione compiuta.
Ma ancora non ci sono certezze. Che magari fra qualche istante verranno fuori e inchioderanno l’accusato. Ma al momento non è così. E lo ha detto chi è legittimato a dire se uno debba essere fermato, ovvero il giudice. Perché non funziona ciò che ha fatto il ministro? Perché ha apertamente parlato di certezze e invece in Italia vige la presunzione dell’innocenza, per chiunque, fino a prova del contrario, ovvero fino a sentenza passata in giudicato.
Nessuno santifica l’accusato perché, fra l’altro, non è da qui che si hanno gli elementi per dire se sia colpevole o innocente. Deve stabilirlo, appunto, la giustizia. Ma le cose che ha detto il ministro, nei confronti di un cittadino italiano e in riferimento al principio costituzionalmente garantito della presunzione di innocenza, sono gravi, soprattutto per l’autorevolezza del ruolo esercitato da chi le ha pronunciate. Questo preoccupa. E alla comunità nazionale una risposta su questo va data.