Di Augusto Ressa*:
Va riconosciuta, negli ultimi tempi, una rinnovata attenzione al verde urbano, tema che sembrava essere posto ai margini nell’agenda della gestione della cosa pubblica. Quasi fosse un argomento accessorio, di carattere voluttuario, e per questo di secondaria importanza. Oggi invece il verde “scala” gli edifici, come a Milano con il bosco verticale di Boeri, o crea, da una linea ferroviaria dismessa, un parco pubblico che attraversa per oltre due chilometri la città, come nella stupefacente High Line di Manhattan di James Corner, mentre sui tetti di New York, di Parigi e di Londra si moltiplicano gli orti pensili. Le principali città europee hanno attivato programmi di intensificazione del verde urbano, rispondendo al nuovo dettato della green economy, nel tentativo di recuperare il lungo tempo perduto durante il quale abbiamo collocato la Natura in luoghi lontani ed esotici, dove recarci magari in vacanza, dimenticando che la nostra sopravvivenza su questo pianeta è condizionata proprio dal corretto, diretto rapporto con la Natura anche all’interno delle nostre città. Il progetto di verde urbano nasce a fine 800, in Italia dopo l’Unificazione del 1861, con la creazione dei primi giardini e parchi pubblici e delle strade alberate. Prima di allora i giardini erano appannaggio delle classi agiate, dell’aristocrazia, all’interno delle proprie dimore, una sorta si status symbol, o nei chiostri conventuali destinati alla vita contemplativa con valore simbolico, o alla coltivazione delle erbe officinali. Il nucleo storico di Taranto, ad esempio, non dispone di aree verdi pubbliche, se non quelle realizzate a partire dagli anni ’30, in piazza Castello o sul lungomare Garibaldi. E’ la città ottocentesca, il Borgo che introduce il concetto di verde urbano e realizza, grazie anche alla sensibilità e la tenacia di uno straordinario sindaco, Francesco Troilo, il primo parco cittadino, i giardini del Peripato, riuscendo ad acquisire dopo annose trattative la villa extra moenia dei Beaumont Bonelli. Negli anni 30 vengono introdotte le alberature del lungomare e delle arterie stradali.
Il Corso Umberto I, allora ancora punteggiato dagli eleganti villini di primo ‘900 dell’aristocrazia e della ricca borghesia cittadina, ripropone lo schema dei boulevard alberati, qui fancheggiato da filari di lecci. Credo sia stato agli inizi degli anni ’70 che venne disposto lo scellerato abbattimento di circa 140 alberi di leccio sul lato nord del Corso Umberto per realizzare aree per il parcheggio delle auto, moltiplicatesi a dismisura con il benessere prodotto dalla nuova fabbrica, L’Italsider. Di questo filare restano, tenaci testimonianze, sparuti esemplari agli angoli di alcuni incroci stradali. Sul filare Sud anni di incuria hanno prodotto la morìa di molti alberi. Le buche, rimaste vuote, sono state nel tempo, anche di recente, in parte ripiantumate con alberi a foglie decidue delle più differenti specie, e con portamento incongruo rispetto ai sempreverdi lecci superstiti. Il risultato è del tutto sgrammaticato, il viale è dimezzato come il visconte di Calvino, la veste stagionale, specie quella invernale è squilibrata, il progetto originario tradito, la resa ambientale sconfortante e disarmonica. In questi giorni la sede stradale del viale, o di quel che ne resta, viene riasfaltata da un’amministrazione comunale che guarda al verde pubblico con rinnovata sensibilità, che programma la realizzazione di una cintura verde, che si appresta a realizzare un ambizioso progetto di forestazione urbana, ma che conferma qui il parcheggio dove un tempo c’erano gli alberi. Voglio immaginare che sia questo un passaggio intermedio, e che questa stessa amministrazione stia già programmando, in linea con quanto enunciato, il ripristino del “viale dimezzato” e la correzione dei madornali errori di grammatica, presenti qui come altrove, per la mancanza, finora, di una adeguata cultura del verde pubblico e di una visione estetica della città.
*architetto