Di Claudio Frascella:
Tra un mese avrebbe compiuto settantadue anni. Era nato a Stigliano, in provincia di Matera, il 22 agosto 1952. Se n’è andato il 17 luglio, a Taranto, la sua città. Schivo, di poche parole, non passava inosservato. Perché fin da giovane aveva avuto una capigliatura tendente al canuto. Ma soprattutto perché, quando non era insieme con il papà e il fratello Mario, nell’officina di via Quinto Ennio dove riparavano radiatori, lo si vedeva andare in giro con una chitarra. Per impartire una lezione, per fare prove insieme con suoi colleghi musicisti.
Un giorno, diciannove anni fa, gli proposi un’intervista, lui aveva 53 anni. Rimase spiazzato. Mi rispose “perché?”. Qualche suo collega avrebbe risposto “volentieri, era ora che qualcuno si accorgesse di me…”. Ma Pino era Pino, uno che, in una Taranto in cui i genitori guardavano al posto fisso per il proprio figliolo, se ne infischiava. I concorsi li faceva anche, per crearsi un alibi e mostrare alla famiglia che ci aveva provato. Il problema, se vogliamo chiamarlo così, è che i concorsi li superava. Una volta aveva risposto positivamente, per un lavoro un po’ distante da casa. Tempo una settimana ed era tornato a Taranto. Il posto fisso non era per uno che aveva in testa la musica, la sua chitarra e gli amici con i quali si intendeva al volo, senza neanche parlare. Penso, ricordando quella nostra chiacchierata, che a Pino non fosse mai capitato di parlare per così tanto tempo. Non mi chiese nemmeno dove dovessi pubblicarla, l’intervista.
La conversazione fu questa, con un piccolo prologo.
La prima chitarra l’ha imbracciata che aveva appena compiuto dieci anni. “Non era proprio una chitarra classica, ma un banjo col manico da mandolino: bell’intreccio”.
Tarantino, nato a Stigliano, vicino a Matera, insieme con il fratello gemello Mario, oggi fioraio, aveva la mania di andare in soffitta, aprire cassoni, infilare mani dappertutto, trovare oggetti che la fantasia bambina trasformava in giocattoli. “Quella chitarra, metà banjo, metà mandolino, fu il mio primo amore, poi toccò al maestro Nivo De Leonardis impartirmi le prime lezioni, perché da quelle benedette sei corde finalmente riuscissi a cavarne dei suoni”.
Magaldi è consapevolmente impacciato. Ha l’essenzialità di De Gregori, gli spigoli di Van Morrison. Una sola intervista, nonostante quarant’anni nella musica tarantina. Sfugge i clamori, dopo le nostre due chiacchiere quasi fugge via, nel suo studiolo, a comporre. “ Venticinque anni fa, Sandro Petrone, oggi al Tg2, scrisse su Quotidiano: “Fugge da Taranto, Magaldi il ferroviere””.
E invece, vent’anni dopo, sei ancora qui.
“Sono fuggito, ma anche tornato sul luogo della sciagura. Una Taranto musicale che non si specchia più, come un tempo, in rassegne come Festa dell’Unità o Taranto e il mare. E’ finita, gli spazi si sono ristretti sotto una pioggia di promesse disattese. Faccio comunque gruppo, suono lo stesso, per conto mio, e insieme con amici, per conto terzi, l’importante è suonarcele”.
Oggi dai lezioni di chitarra a casa, nella biblioteca comunale di Crispiano, alla scuola “Yamaha”: non hai orari, libero da condizionamenti. Hai sciolto i Tropicool, ma conti di ricomporne le fila. Amici con i quali suonare per puro divertimento si trovano sempre. Ma cosa fa uno spirito anarchico che non vuole saperne di orari, di qualcuno che faccia ordine alle sue giornate?
“Ho sempre lavorato e fatto concorsi. Più ne facevo, più mi arrivavano raccomandate. Ho vinto tutti i concorsi cui partecipavo: Arsenale, Ferrovie, Poste…No, io dietro uno sportello, a staccare biglietti, a stare dietro una sirena che urla alle sette del mattino, proprio non ci potevo stare”.
E a casa, “Pino, però, il posto fisso…”.
“Mai, i miei non mi hanno fatto mai pesare il mio desiderio di libertà. Cestinavo le assunzioni e loro, come se niente fosse: se hai deciso così e a te sta bene, va bene anche per noi. Non mi pento nemmeno un po’, non ho però avuto l’alibi di tanti che invocavano decine di concorsi senza esito. Insomma, mi andava male, ma alla rovescia”.
I tuoi complessi?
“Tanti, dagli Ogige a El Cacique, da Magical Mistery Tour ai Tropicool. E tanto altro, tanti anni passati fra un oratorio e un club, ma senza l’obbligo di matrimoni, cresime, battesimi. Ho sempre suonato quello che mi andava di suonare”.
Non sei spesso sui giornali. Per essere uno che ha quarant’anni di musica e una lunga militanza in formazioni diverse, si direbbe che non sei un buon ufficio stampa di te stesso.
“Questa è la prima vera intervista: cercato, invitato, possibilmente con foto alla mano. Non ho mai voluto diventare famoso – sorride, ma appena – ho lasciato che per me lo diventassero James Taylor e Pat Metheny. Sono più felice di andare a suonare in un posto e, alla fine, strappare un applauso, un complimento”.
I tuoi inizi, fai uno sforzo, li ricordi per noi?
“La prima esibizione, più che un concerto, non spaventarti, nel ’65. Nella scuola media “Battisti” di via Pacuvio, due passi da via Quinto Ennio, dove io, mio fratello Mario e papà, avevamo una piccola attività meccanica. Il mio pezzo forte era “Apache” degli Shadows, ma mi difendevo bene anche con il repertorio di Beatles e Rolling Stones”.
I tuoi compagni di viaggio?
“Tanti, non basterebbe nemmeno un intero convoglio per farli stare tutti comodi. Temo di lasciarne qualcuno a terra. Non so, Mimmo Colizzi e Peppe Modio, i fratelli Losasso, Angelo, Marcello e Gianni, Gisberto Nicoletti. No, ci provo: è più facile ricordare una canzone suonata trent’anni fa con Alan Sorrenti in “3/4”, che i nomi dei miei amici con cui ho condiviso anni di emozioni. Perché la musica, per me, è questo: emozione”.
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