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Locorotondo: staffetta d’autore Sesta edizione

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Di Franco Presicci:

Tra “cummerse” e piante rampicanti che s’inerpicano sui balconi, sui cornicioni e sulle porte è andato in scena l’altra sera in un budello di Locorotondo la sesta edizione della “Staffetta d’autore”, organizzata da Paolo Giacovelli, titolare della casa editrice omonima. Una ventina di scrittori, venuti da ogni parte d’Italia, si sono avvicendati al microfono, a cominciare da Carmela Maria Ricci, che ha recitato, da diva del palcoscenico, in lingua e in dialetto, due toccanti poesie sul gioiello in cui vive, Martina Franca, tratte dal suo libro, “Quella nevicata del ‘56”, che sta facendo il giro d’Italia.

Non mi aspettavo una manifestazione così interessante, durata alcune ore senza mai annoiare, tra l’altro intervallata dai virtuosismi di un giovanissimo batterista, Giandomenico, che con le sue note spaccatimpani è stato invaso da uno scroscio di applausi. Dopo l’ovazione per il tenore Gianni Nasti, martinese doc. la cui ugola ha fatto quasi fremere i vetri delle case. Ogni autore ha avuto il suo presentatore, tra cui il professor Francesco Lenoci, a cui è toccato fare domande all’autrice di “Messalina”, Ero seduto quasi sulla soglia della libreria di Paolo e da lì ho seguito ogni parola di Bruna Osimo, che interrogata da Federica, una delle belle ragazze, vestite di bianco, che collaborano con Giacovelli, ha scolpito lo stile e le virtù manageriali di Marisa Bellisario, una donna eccezionale, iscritta nell’albo d’oro del nostro Paese, purtroppo scomparsa anzitempo. Dopo di lei Annalisa Scialpi, che con la sua una valanga di racconti ha quasi smorzato le domande dell’intervistatore… Ho ascoltato tutto, attento, stupito, avido: esperienze sciamaniche, una lezione di storia sull’Illuminismo e sui suoi più alti rappresentanti; ho visto libri per bambini; ho ammirato la celebrazione della Valle d’Itria, un incanto, una magia, una bellezza insolita. La bellezza ha in sé la capacità di salvare il mondo, ha esclamato un‘autrice; la scuola deve essere informazione e educazione, oltre che istruzione, ha detto e ripetuto una direttrice scolastica, intervistata da una sua allieva. A ognuno 15 minuti, cronometrati dalle collaboratrici di Giacovelli. Facevano la ronda fra la libreria e il podio e lo stesso editore sembrava un corridore in allenamento: appariva, scompariva, attraversava lo spazio lasciato libero per il passaggio, si sedeva sugli scalini di pietra di una casa di fronte, prendeva libri dagli scaffali e andava a deporli su un banco in cassette costruite come quelle della frutta, parlottava, presentava, suggeriva chissà che cosa alle sue giovani vestali della cultura. Volgo lo sguardo in alto e su un’altana vedo la testa di una signora anziana intenta a godersi i suoni, le voci, le storie come se assistesse a uno spettacolo teatrale; e infatti il centro antico di Locorotondo è fatto di quinte, fondali, ribalte, fiori ovunque come tavolozze vegetali.

Questa è la terra di Giuseppe Giacovazzo, già direttore de “La Gazzetta del Mezzogiorno” e principe della Rai, dove nel ‘70 realizzò il primo documentario a colori, su Domenico Cantatore, di Ruvo di Piglia. Da un momento all’altro potrebbe arrivare il figlio Piero, che legge il telegiornale e fa l’inviato sulla stessa rete. Ha ereditato la rivista “Paese vivrai” ideata dal padre, autore di “Puglia, il tuo cuore”. Non lo vedo: la vita di giornalista, costringe ad impegni improvvisi. La sedia che occupo, pur bella, pur elegante, non ha rispetto per il mio fondoschiena; e mi costringe ad assumere varie posizioni, che mi fanno sembrare pizzicato dalla tarantola. Ma è un disagio che mi conviene sopportare. Oltretutto è da tempo che desideravo rivedere questo spettacolo e l’ambiente in cui viene incastonato: un vicolo già ripreso dal pittore Filippo Alto, a cui qui hanno dedicato una via. Sono in prima fila, posizione ideale per entrare in libreria senza disturbare e chiedere a Federica notizie sulla storia dell’iniziativa. È gentile, disponibile, presa dal suo ruolo. Il pianto di un bambino si spande sulla platea, ma non sovrasta i dialoghi, per due volte benedetti
dal suono delizioso delle campane, che stimola ricordi. Dalla strettoia tra il muro e le sedie passano spesso coppie, singoli, giovani, anziani con una coda di ragazzini. “Saranno tedeschi ronza il mio vicino. Certo sono stranieri”. Hanno macchine fotografiche in mano e zaini sulle spalle. Si fermano, osservano e s’immergono in un vicoletto che sta in fondo a sinistra. Siamo in via Montanaro; gli altoparlanti sono quasi sulla mia testa. Vi lascio immaginare lo stato
delle mie orecchie, quando Giandomenico si scatena fra piatti e tamburo. Bravo, bravissimo, ragazzo, sussurrano un paio di signore accomodate di fianco a me. Alto quanto un soldo di cacio (senti chi parla: non lo so supero di un centimetro). Al termine di ogni brano si toglie il berretto calato sulla fronte, lo sventola, lo lancia sul computer
che ha in terra. Simpatico, apparentemente sbarazzino.

Prende la parola una scrittrice che conosce bene la ‘ndrangheta, i suoi crimini, la sua potenza, e rivela la solidarietà che induce i cittadini a raccogliere fondi per ricostruire ciò che le bombe delle ‘ndrine hanno distrutto. “Questa mafia ha tentacoli dappertutto e come le altre è il male oscuro del Paese”. Tace quando fa buoni affari, mi disse un giorno il pm antimafia Francesco Di Maggio, uomo tra l’altro coltissimo e avveduto, con papà maresciallo dei carabinieri. E’
necessario che lo Stato non lasci soli i suoi uomini migliori. La mafia non demorde. I boss al “gabbio” trasmettono ordini all’esterno. Muore un capo ne fanno un altro. Decide la cupola. I boss sono come la coda
della lucertola: la tagli e ricresce. Sulla via del ritorno sollecito un giudizio su Giandomenico a Gianni Nasti. “Bravo”. Asciutto, sintetico. Le strade che percorriamo per rientrare a Martina sono poco illuminate, ma lui guida con perizia. “Ti è piaciuta la serata?”. “Moltissimo”. D’accordo Carmela, che accompagna alle risposte un sorriso dolce. Ho in mente le parole con cui Paolo ha ringraziato tutti, me compreso. Sono io che ringrazio lui per l’ospitalità. Interessantissima questa “Staffetta di autore” di Locorotondo, che alterna la poesia al racconto della realtà contemporanea: adolescenti che bullizzano, si picchiano, sfoderano il coltello, mariti che uccidono le mogli. E le guerre. Il mondo è sull’orlo del precipizio. È tornata la paura, l’angoscia, il terrore. L’Europa trema, il Medio Oriente viene devastato. L’Ucraina è un ammasso di macerie. La gente invoca la pace, basta con le distruzioni, si ha voglia di tranquillità. Questi scossoni non hanno avuto molto largo alla “Staffetta”, ma i presenti dopo gli accenni di alcuni autori sicuramente li hanno pensati. La Tivù trasmette immagini terrificanti, i commenti degli esperti non sono rassicuranti. La preside afferma che la scuola deve essere capace di educare, di ripristinate il rispetto per gli insegnanti, con genitori che siano con loro in armonia. Concordo con le varie voci della “Staffetta”. Con la celebrazione della bellezza, che può essere salvifica. E penso alla Valle d’Itria, oasi di pace; al centro storico di Martina. È più bello di quello di Locorotondo? Il sindaco del “Locus Rotundus”, ha preso il microfono per un breve, frettoloso intervento e ha nascosto il suo pensiero (diplomazia dettata dalla posizione). Ma sicuramente tifa per il suo paese. Anche il centro storico di Martina ha il suo fascino.

Ah! la prima cosa che mi ha colpito a Locorotondo è stata una “vedovella”: fontana che arricchisce la scenografia di un paese. Ha un difetto: rotto il vecchio rubinetto, lo hanno sostituito con un uno moderno. E la fontana non è più un monumento che potrebbe raccontare mille storie, come quelle sviluppate alla “Staffetta”. Tonando a Carmela Maria Ricci, ricca di idee, custode di usi e costumi tramontati, docente di matematica in pensione, prima di arrivare alla “Staffetta”, con un sorriso divertito, ha fatto un’osservazione originale: la matematica nasce da noi, è dentro di noi: due occhi, un naso, una bocca, due orecchie, un cuore, due gambe, due braccia, venti dita distribuite fra due mani e due piedi: sono numeri. Già, sono numeri anche i piani dei palazzi, gli scalini e le navate delle chiese, gli alberi, le vigne. E numeri si trovano nel suo libro, “Quella nevicata del ‘56”, dove la voce narrante è lei, bimba di cinque anni, che non ignora la fatica del padre contadino nello strappare la terra ai sassi, i rapporti che aveva con gli altri, gli attrezzi che usava, i caratteri delle persone… Una chicca, almeno per me: il caffè a quei tempi si ricavava dalla radice della cicoria selvatica, e prese poi il none di “ciofeca”. Quante nozioni si apprendono conversando con la scrittrice. Peccato che queste cose non le abbia dette al pubblico della “Staffetta”.


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