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Vito Plantone, il poliziotto di Noci nella storia degli investigatori Si inaugura a Lodi una mostra sul contrasto alla criminalità

Plantone e Borsellino

In questura di Lodi si inaugura una mostra sul contrasto alla criminalità. Fra gli investigatori che hanno fatto la storia dell’immediato dopoguerra nel milanese e dei decenni successivi, Vito Plantone, originario di Noci.

Di Franco Presicci:

Vito Plantone, il “re delle notti milanesi”: conosceva tutti i locali notturni, le persone che li frequentavano, gli ambienti, i titolari… E a volte lì si sedeva ad un tavolo per un’oretta con due suoi uomini e spaziava con lo sguardo da un lato
all’altro con discrezione. Non gli sfuggiva nulla, neppure il contenuto di una bottiglia che ll cameriere versava al cliente.
E conosceva bene le strade e i luoghi più riposti, soprattutto nel centro della città: tanto che quando alla fine di aprile dell’80 un nutrito gruppo di detenuti di notevole spessore criminale, guidati da uno spavaldo capobanda, evase da San Vittore, lui da solo si mise a cercare chi aveva organizzato la fuga ed era il solo a non essere stato rispedito al “gabbio” subito dopo l’impresa. Aveva coraggio, pazienza, intelligenza e tanta esperienza. Era cortese, di poche parole, parlava sempre a bassa voce e sorrideva facendo fremere i suoi baffetti alla Nino Manfredi con qualche filo bianco.
Sempre elegante, ironico, di battuta pronta, amante della compagnia e delle barzellette, che nei momenti di riposo raccontava con “verve” teatrale. In quella compagnia erano inseriti il pittore Filippo Alto, barese doc che celebrava
la Puglia e non solo; l’inviato speciale del “Corriere della Sera” Costantino Muscau; Francesco Colucci, vicecapo della Squadra Mobile, che ha concluso la carriera da prefetto; Enzo Caracciolo, siciliano dall’espressione solenne, andato in pensione da questore; l’ingegnere Martino Colafemmine, di Acquaviva delle Fonti; Achille Serra, romano, dalla carriera costellata di promozioni fino a quelle a questore di Milano e poi prefetto di Roma. Ci riunivamo attorno a un piatto di orecchiette con le cime di rapa, che Enzo Catania, vicedirettore del “Giorno”, nel suo libro “I gialli dell’estate”,
descrisse osannandole e alè, viva l’allegria. Era una compagnia invidiata che si riuniva spesso a casa mia o in quelle di Vito, Costantino e di altri. Ma nessuno parlava mai della propria attività professionale; e io e l’altro mangiapolvere non approfittavamo mai di queste occasioni per carpire una notizia: ce lo impediva anche il rispetto dei ruoli. L’amicizia per noi era una cosa sacra; il lavoro quotidiano di ciascuno un’altra. Le notizie le cercavamo altrove,
scarpinando e, se necessario, divorando un panino con la mortadella in sala-stampa o addirittura sui marciapiedi. Una sola volta andai in via Poma, dov’era la sede del quarto distretto di polizia diretto da Plantone per avere conferma di un arresto molto importante e mi trovai di fronte alla Sibilla cumana, mentre osservavo i canarini che
cantavano in una voliera che campeggiava nell’ufficio (il capo aveva copiato da me a crescere i volatili).
Vito, sollecitato, ci raccontava però vecchi fatti, dopo la promessa di non farli finire sul giornale. Fatti che riguardavano anche rilevanti elementi di Cosa Nostra nell’atto del loro arresto. Quella promessa la manteniamo ancora oggi, dopo la scomparsa del narratore: Costantino perché ha deposto la penna (ma può riprenderla quando vuole), impegnato all’Associazione giornalisti ed è uomo di prola; io pur continuando, scelgo altri argomenti e resto fedele al silenzio richiesto. Ma altri episodi, che fanno parte della storia del crimine, eccoli qua: la giornata del febbraio ‘71, a Roma. Quel giorno una combriccola di pellacce fece una rapina a un furgone che trasportava le paghe degli operai di un’azienda, realizzando un bottino consistente. Dalla tecnica usata e dai movimenti Plantone ebbe qualche sospetto; e fece il giro d’Italia investigando, per poi arrivare a un famoso e lussuoso albergo siciliano, dove sul bordo della piscina intercettò gli autori dell’impresa, un clan milanese. Uno dei “duristi” (rapinatori in gergo) tentò di prendere il borsello lasciato su un tavolino e Plantone lo bloccò dicendogli: “Non ti conviene!”. Uscendo con la combriccola, il grande investigatore salutò il proprietario dell’albergo, al quale si era presentato come cliente facoltoso che desiderava visitare l’ambiente prima di prendere la stanza.
La rapina era un fatto nuovo per Roma, che subiva scippi e furti con il sistema della gomma a terra, in seguito trasferita a Milano, dove scivolò nella trappola tesa da Mario Nardone. Chiesi a Vito la differenza tra la mala di una volta e quella recente: mi rispose con un esempio: “Una sera con alcuni colleghi e rispettive mogli entrammo in un ristorante del centro e appena misi piede sulla soglia notai un manipolo di “gentiluomini” che brindavano. Ci videro e poco dopo uscirono; passò qualche minuto e si avvicinò a noi un giovane con un grosso mazzo di rose rosse per
le signore, che rispedimmo cortesemente al mittente. “Ecco, allora i malavitosi ci rispettavano; oggi invece ci sparano addosso. In sintesi…”. Nel giugno dell’85 il vicedirettore del giornale e capocronista Guido Gerosa, collega coltissimo, scrittore, modi da persona mite, amante della “nera”, mi incaricò di andare a cercare in tutt’Italia i poliziotti di maggiore spicco che avevano svolto parte della loro attività a Milano. E due giorni dopo volai a Catanzaro, dove era questore da un paio di mesi Vito Plantone. Venne a prendermi all’aeroporto e mi portò a mangiare il pesce in un ristorante, dove fu ricevuto come fosse il presidente della Repubblica. Mi parlò della sua nostalgia per la vita di Milano e della sua malinconia nel capoluogo della Calabria, dove passeggiava di notte con il suo autista fra il miagolìo dei gatti. “Con tutto il rispetto dovuto a questa storica città, in cui ho molti amici, compresi artisti di livello”.
Rimasi una settimana, ospite in casa sua. Due giorni prima della partenza gli ricordai l’intervista. “Già, l’intervista. Ti avverto subito che racconto le imprese, non i nomi. I protagonisti di quelle attività hanno scontato o stanno scontando la pena, magari hanno figli che vanno a scuola o sono laureati, mogli che lavorano, non è giusto metterli sempre nelle pagine dei giornali…”. Lo stesso discorso mi fece poi il “mito”: Mario Nardone, quando mi ricevette nella sua abitazione di via Savona e mi offrì un caffè delizioso preparato da lui. Con il “mito”, a cui la televisione nazionale dedicò in seguito uno sceneggiato di non so più quante puntate, Plantone aveva lavorato e con lui avevano scarpinato Jovine, Oscuri, Giannattasio, che interrogò più volte Joe Adonis, per sapere come vivesse a Milano, e riuscì a a fargli aprire bocca soltanto per il racconto di un’esperienza negli Stati Uniti, dove era finito nei guai perché a una domanda degli investigatori aveva sbagliato il giorno della data in cui era immigrato, ancora in fasce.
La prima volta che incontrai Plantone fu nel suo ufficio di dirigente della sezione rapine. E mentre conversavamo ricevette una telefonata da Roma, che lo informava su un gruppetto di pellacce partite in auto per Milano per fare molto probabilmente una rapina. Lui organizzò subito un piano e il giorno seguente la banda venne acciuffata davanti a un istituto di credito in via Palmanova.

Plantone amava la Puglia, amava Noci, e quando si parlava delle masserie fortificate e delle scorribande dei malviventi e dei briganti dell’800, della chiesa madre, del 1316, faceva cadere il discorso sul centro storico, definendolo più bello e più ordinato di quelle di Martina Franca. Forse lo faceva per provocarmi, sapendo il mio amore per la città del sole e della musica: “Il nostro borgo antico è anche più luminoso, teatrale, ricco di fiori”. Anche le mozzarelle di Martina per lui erano più buone. Me le fece gustare una sera nella campagna di Lino Colucci, suo cognato, martinese incrollabile, e io, che ho un palato poco raffinato, non seppi cogliere la differenza.
A casa sua assaggiai per la prima volta la “’nduria”, che scatenava l’inferno in bocca. Me ne mise da parte un pezzo con l’invito ad apprezzarla meglio a casa. Era amante anche del peperoncino piccante, glorificato a Crispiano in una sagra, che si svolge da parecchi anni. In una cena da Filippo Alto, Ada, la moglie portò in tavola la pasta con i ceci. E Vito: ”E il peperoncino?”. Ne ingoiò uno interno; lo imitai e stavano per chiamare i pompieri. Per respirare aria di Puglia qualche volta a Milano andava al ristorante a mangiare “fave e fogghie”. E di Puglia e di Noci parlava spesso con l’ispettore Armando Sales, un suo collaboratore preparatissimo e acuto, in ufficio e al locale di piazza Sant’Eustorgio, dove ogni tanto riuniva tutti i suoi uomini.
Fumava il sigaro, come me, e quando durante una battuta di caccia ebbe l’infarto si liberò di un paio di scatole scaricandole nella mia macchina. Ne usai quattro o cinque; poi smisi anch’io. Fu ricoverato al Policlinco per un intervento importante e tutte le sere andavo a trovarlo e gli tenevo su il morale. Non so fino a che punto, perché Vito tra l’altro era riservato e riusciva a non confessare il dolore. Una sera mi disse: “Franco, non temo la morte, ma la malattia”. Quando uscì, a casa sua una sera mi improvvisai, per distrarlo, quasi in augusto musicale, i clown scicche che nei circhi suonano strumenti strani, come il pallone delle fiere paesane, ma anche trombe e clarinetti. E gli ricordai un pagliaccio in terracotta che mi aveva regalato nel piccolo laboratorio di un figulo del suo paese.
Ai funerali il fratello medico mi invitò a tenere un discorso in chiesa e non me la sentii, avendo già rivoli di lacrime sul mio volto. Osservai i due poliziotti con la spada in mano sulla soglia del tempio e si scatenarono i ricordi: una valanga, un rubinetto aperto al massimo. Se ne andava un gentiluomo, un grande poliziotto, che aveva passato brutti momenti negli anni di piombo; un uomo amato ovunque, pilastro di via Fatebenefratelli, anche lui una leggenda.


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