Di Franco Presicci:
Ricordo con affetto Gigi Pedroli, visto mesi fa nel cortile del negozio di abbigliamento militare e janserie di Graziana e Paolo Martin. Su un palcoscenico improvvisato cantò le sue canzoni in dialetto e in italiano, sfornò battute di spirito, dialogò con il numeroso pubblico, che espresse il suo entusiasmo non solo battendo le mani, ma chiamandolo a gran voce in segno di ammirazione. Tutti si alzarono in piedi, e lui, strofinandosi le mani, che forse stavano perdendo energia, rimase immobile aspettando che il diluvio si placasse.
In prima fila, sulla destra, in piedi, Graziana e Paolo tradivano l’emozione che provocava loro quella festa, impreziosita da un personaggio come Gigi Pedroli, l’emblema, il cantore del Ticinello, grande acquafortista, pittore, uomo buono, sincero, pacato, un sorriso discreto, fondatore con la moglie Gabriella del Centro Incisione, sull’alzaia Naviglio Grande, in un luogo che sa di magico, di fiaba e di leggenda: dicono che sia stato il casino di caccia di Ludovico il Moro.
Se n’è andato qualche giorno fa, il grande Gigi, addolorando tutti quelli che lo conoscevano. E a Milano, e non solo, erano in tanti a conoscerlo e ad amarlo.
Ricordo la sera in cui al Centro dell’Incisione Nicola Partipilo, patron della casa editrice Celip, presentò uno dei suoi libri monumentali su Milano. Tra i presenti, il professor Lauria, docente di veterinaria alla Statale, addossato a uno stipite della porta, pendeva dalle labbra di Gigi, che parlava dei tempi in cui la zona era abitata prevalentemente da pugliesi e ospitava laboratori di artigiani di ogni tipo, dai maestri argentieri ai corniciai; e gallerie d’arte e studi di pittori. Poi, accompagnandosi con la chitarra, cantò alcuni suoi brani in vernacolo: “El pitur de Madoin”, “El cartunista”, “L’Ernesto”, “el Viagra”… spandendo allegria nella sala e fuori, dove il pubblico debordava. L’avevo già ascoltato alla Formace Curti, nello studio di Sarik (Riccardo Saladin), tra artisti, professionisti, fotografi… Anche Gigi aveva un laboratorio da Curti, dove realizzava prestigiosi oggetti in ceramica.
Quando andavo a fargli visita al Centro dell’Incisione lo trovavo sempre piegato sul tavolo a produrre l’idea: folle di gente, la Galleria Vittorio Emanuele con figure fantastiche, deformate, nell’Ottagono, mani, volti che volano; oli su tela, con un paesaggio ligure, su carta uomini e alberi… Renzo Margonari, in un suo intervento in un libro sull’artista intitolato “Vena popolaresca e cultura antica nell’opera di Gigi Pedroli, cantastorie lombardo e pittore di vita”, ha scritto che “avviene spesso che la figurazione allegorica si aggiri nei territori del visionario e del fantastico…”, aggiungendo che “Pedroli è per sua natura dotato di sapienza compositiva…”. Ha scritto questo e tantissimo altro, il critico, illustrando appieno il contenuto artistico di Gigi. Io mi limito a far scorrere nella mia mente le opere che con il passare del tempo ho visto estasiato nelle sale del Centro, alle quali si arriva attraversando un corridoio che sembra un giardino immerso nel silenzio e nella pacre.
Se era assente Gigi, perché alla Fornace in via Walter Tobagi o altrove, mi forniva le notizie che cercavo Gabriella, sempre gentile e impegnata con persone anche straniere che stazionavano davanti alle opere appese alle pareti o consultavano gli album nei quali erano custodite tante acqueforti eseguite da Gigi.
Su “Il Corriere della Sera” è Pietro Ichino, di cui ricordo un libro bellissimo, che parla anche del naviglio e di Gigi, a descrivere la figura, l’arte e lo spessore umano del mito nel Naviglio Grande: “Nella vita sua e della moglie Gabriella si esprime una laica povertà evangelica: distacco dalle ricchezze apparenti che nasce da una serenità profonda e ispira serenità al prossimo, attaccamento alle ricchezze vere della vita, quella per la quale gli occhi di Gigi Pedroli si illuminano e ridono: l’affetto per gli amici e degli amici, la grandezza nascosta degli ultimi (persone vere che la città relega ai margini e di cui egli ci insegna a vedere e amare l’umanità nelle sue canzoni…”.
Gigi non aveva bisogno d’indottrinamenti, di apprendere lezioni di vita da maestri improvvisati; egli stesso era l’esempio da seguire, imitare. Ho parlato tanto con lui, anche all’antica Fornace di Alberto Curti. Un giorno lo colsi mentre lisciava con il pennello un paesaggio siciliano su un piatto di argilla. Rimase seduto indicandomi una sedia e parlammo di Milano e della Festa del Naviglio che si avvicinava. Era quella un’altra occasione in cui gli ammiratori affollavano il Centro con le porte spalancate. Un anno, verso metà dicembre, quasi sulla soglia della sala esposizioni sorpresi e fotografai due zampognari, che poi vennero invitati ad entrare continuando a soffiare nello strumento. Ho rivisto la scena in un video girato da un amico di Gigi, che si tiene in disparte e qualcuno cerca di spingerlo verso i pifferi.
Nato nel marzo del 1932 a Milano, Pedroli frequentò il collegio di don Guanella in via Mac Mahon, dove ebbe la possibilità di studiare. Dopo fu alla civica scuola d’arte del Castello, quindi ottenne un impiego di grafico in uno studio pubblicitario. Fece tanti passi faticosi per andare avanti, grazie anche all’incoraggiamento di Gabriella, intelligente e sensibile. E lui giorno dopo giorno conquistava uno scalino. Gli amici lo stimavano e lo stimolavano, e lui sempre più impegnato, sempre più attento, sempre più ammirato e noto. Partecipò a mostre, ricevette riconoscimenti, premi. A Roma, Sestri Levante, Modena… Il suo nome si afferma, la sua arte è apprezzata ovunque. I critici consacrati si accorgono di Pedroli. Gilberto Finzi, Gilberto Cavicchioli, Mario Passi… esaltano l’attività e la personalità del milanesissimo Gigi, che per erigere il suo tempio sceglie il Naviglio Grande, caro ad Alfonso Gatto, a Gaetano Afeltra, a Empio Malara, a Carlo Castellaneta, a Tullio Barbato, grande giornalista del quotidiano del pomeriggio “La Notte” e fondatore della gloriosa Radio Meneghina. E in quella radio Gigi Pedroli, amico di Tullio, fu accolto con riguardo per dare voce alla sua ispirazione. Che gioia ascoltare le sue composizioni, dettate al suo cuore dalle vecchie osterie rispolverate da Luigi Medici, dalla gente umile, dai personaggi caratteristici, protagonisti delle sue canzoni, diffuse in ogni angolo dell’alzaia, della ripa e altrove, dalle case di ringhiera con i cortili a zig zag ad Inverigo, sede del Festival della canzone milanese ideata negli anni 50 da Giovanni D’Anzi. Disse Roberto Buttafava che Gigi le sue canzoni non le scriveva per venderle, ma per se stesso, per farle ascoltare agli amici che con lui si riunivano per divertirsi, per passare una serata in allegria, godendo la sua ironia garbata e la sua genialità di cantautore naif, che amava la gente, Milano, i navigli, di cui conosceva bene la storia e la gente del Sud.
Come dimenticare Gigi Pedroli, uomo sottile e alto non soltanto fisicamente, uno sguardo luminoso, capelli radi e bianchi come i baffi. Le sue tracce sono indelebili, profonde. Non restano soltanto le sue opere, che trascinano l’osservatore in un mondo di sogni. “Nessuno potrà prendere il tuo posto nel nostro cuore”, ha scritto Graziana Martin. Cinzia Alibrandi; “Una preghiera per la figura storica del Naviglio”. La notizia della scomparsa dell’icona del Ticinello si è sparsa immediatamente sulle sponde del corso d’acqua, commuovendo tutti i lombardi, e non solo. Ciascuno aveva un ricordo da regalare all’altro, mi ha riferito un amico, che ha partecipato ai funerali. Luca Barbato ha postato su facebook una foto di Gigi con la chitarra in mano (dedicata a Tullio). Sara Basilico lo ha definito una leggenda del Naviglio. Io ho riascoltato le sue storie lombarde, soprattutto “Il cartunista, che andava in giro di notte per raccogliere gli scatoloni che la gente buttava via, a Milano, nonostante i pericoli che quando cala il buio possono presentarsi in una grande città. “L’ho incontrato ad uno sfasciacarrozze – dice – con un’automobile tutta a pezzi. Lui cercava un parafango e non voleva spendere nulla…”. Addio, caro Gigi.