Di Franco Presicci:
Sono anni che non passo più da via Fatebenefratelli, in cui si apre il grande portone della questura, in cui “pilastri” da tempo non ci sono più. E neppure passo da piazza Cavour, dove era acquartierata la redazione de “Il Giorno”, nel Palazzo dell’Informazione. Nè da via Chiossetto, che al numero 10 ospitava il laboratorio del grande ceramista Giuseppe Rossicone. La verità è che esco poco e le poche volte che metto i piedi fuori di casa ho pochi altri itinerari. Ma dalla memoria non scompaiono i nomi e le figure dei tanti amici che ho avuto: Filippo Alto, grande pittore pugliese che in uno stesso quadro accostava varie vedute separandole con un ramo d’ulivo o con un tralcio di vite; Chechele Iacubino, titolare de “La Porta Rossa”, che correva spesso alla sua Apricena, orgoglioso di saperla frequentata a suo tempo da Federico II; Mario Azzella, giornalista e documentarista Rai, anche lui di quella terra, che oltre al buon vino ha prodotto persone geniali; Antonio Velluto, di Troia, giornalista in corso Sempione, in cui campeggiano le antenne e l’insegna della Rai e assessore comunale all’Edilizia popolare; Guido Le Noci, gallerista di livello europeo, di Martina Franca, figlio di uno scalpellino… Ho attraversato pochissime volte via Borgonuovo, soffermandomi di fronte allo stabile in cui abitò il poeta e critico d’arte tarantino Raffaele Carrieri, al quale Le Noci mi promise di presentarrni, ma non ebbe mai l’occasione di farlo.
La casa in cui abitò uno dei più cari amici non ha alcuna targhetta sulla porta: Vito Plantone, come quasi tutti gli altri, se n’è andato e oggi sta nel cimitero di Noci. Era nato in questa cittadina con boschi e masserie fortificate che rinfrescano ricordi di briganti del 1860; e con il centro storico notevole per il suo ordine, la sua bellezza, il suo lindore, il suo profumo di piante e fiori vicino alla via del passeggio. Quante volte Vito lo ha osannato, questo centro storico di Noci, soprattutto parlando con l’ispettore Armando Sales, un poliziotto serio, preparatissimo, solerte, che lui considerava un gioiello del commissariato Ticinese, che diresse per un periodo della sua attività lavorativa. E faceva i noni delle architetture rurali (masseria Torricella, masseria a pignon, masseria a trullo…) non dimenticando l’abazia Madonna della Scala dei frati benedettini.
Plantone era un uomo di spirito e spesso faceva battute ingegnose, nelle ore libere, soprattutto quando si trovava in allegria nella nostra compagnia. Gli altri non erano da meno: Costantino Muscau, bravissimo inviato speciale del “Corriere della Sera”; il pittore Filippo Alto, buontempone la sua parte, barese doc; Francesco Colucci, in pensione da prefetto, avellinese; Achille Serra, romano; Enzo Caracciolo, siciliano, una specie di dio greco, che aveva lo scrupolo di non essere riuscito a scoprire chi aveva ucciso, il 14 luglio del ‘71 all’Università a Cattolica di Milano, Simonetta Ferrero; Martino Colafemmina, che tutte le sere dava la corda ai suoi preziosi orologi da tasca; il giudice Romeo Quatraro di Acquaviva delle Fonti, diventato presidente del tribunale civile…
Ci riunivano nelle nostre case e ognuno raccontava barzellette o storie inventate al momento magari tra un piatto di orecchiette con le cime di rapa e peperoni ripieni. Era così compagnone, Vito, che una volta venne apposta da Catanzaro, dov’era questore, per partecipare a una festa di carnevale organizzata da uno di noi. Un amico mi dice: “Bisognerebbe allestire una serata in ricordo di Vito, per questo amico amato e stimato, ritenuto una colonna della polizia: un investigatore esemplare. Per la verità ne avevo organizzata una io, ma quando era ancora in vita, nella Galleria Prospettive d’arte, di Mimmo Dabbrescia, di Barletta, dandogli come premio un piatto di Gonzaga raffigurante un uomo a cavallo.
Molti tengono ancora a mente la personalità di Vito Plantone, la sua grandezza, la sua umanità, il suo impegno di poliziotto. Severo, pacato, voce bassa, intelligente, baffetti scuri, elegante, solenne. Dopo un rodaggio alla questura di Bari, salì a Milano, lavorò con Mario Nardone, mostrando subito le sue doti. Uno dei suoi successi rimasti nella storia della polizia, avvenne nel ’71, quando un capobanda di notevole spessore, che molti definivano il padrone di Milano, assaltò a Roma un furgone della Stefer, che trasportava oltre 100 milioni. Un episodio clamoroso che bisognava risolvere, individuando ed arrestando gli autori . Le indagini vennero affidate a Vito Plantone, che passò giornate intere a passare da una città all’altro, ascoltando possibili testimoni, osservando, cercando fino ad arrivare in un lussuoso hotel siciliano, dove pensava di poter porre brillantemente fine al suo lavoro. Entrò nell’albergo, si finse una persona d’alto rango desiderosa di visitare il luogo prima di prenotare; e così a bordo della piscina intercettò i probabili rapinatori con le proprie donne. Uno di loro tentò di raggiungere il tavolino dove aveva il borsello e Vito con calma serafica lo invitò a desistere per non creare problemi.
Quando accennava a questa rapina e al risultato delle relative indagini ogni tanto accodava tante altre aggregazioni criminali: la banda dei Tir, per esempio, composta di sette elementi finiti in carcere uno dietro l’altro; la banda del Mec, sgominata nel febbraio del ‘72. Il capo della seconda combriccola aveva preso un nome che poteva spiccare ai tempi dei “saloon” e degli sceriffi del Far West: riavuta la libertà nell’aprile del ‘71, aveva raggruppato attorno a sé gli elementi più esperti avvicinati in galera. C’erano anche altre bande: quella della dolce vita”, quella del cinese, capeggiata da un giovane perito industriale; e la banda del lunedì.
Il primo commissariato che andò a dirigere fu il quarto distretto di via Poma, dove lavorò come commissario Antonio Di Pietro; poi passò al Ticinese, quindi al primo distretto di piazza Sepolcro, culla, nel 1919, dei sansepolcristi. Quando fu promosso questore fu destinato a Catanzaro e anche lì fu circondato da affetto e stima. Era il 1985 e Guido Gerosa, che era vicedirettore e capocronista, ideò una serie di servizi intitolata “La polizia racconta” e dette a me il compito di saltare da una città all’altra, ovunque ci fossero poliziotti che avevano operato brillantemente a Milano: Iovime a Venezia, Fariello a Torino… Nardone lo intervistai nella sua casa di Milano in via Savona.
Piombai a Catanzaro e Vito Plantone, per me e per tutti gli amici semplicemente Vito, venne a prendermi all’aeroporto e mi portò a mangiare il pesce in un ristorante di tutto rispetto. Eravamo in tre, con l’autista. E tra un piatto e l’altro mi chiedeva notizie di Milano, che aveva lasciato con un tantino di amarezza: le notti di Catanzaro non erano come quelle milanesi, dove ogni tanto con un paio di poliziotti, tra cui il maresciallo Giuffrida, andava anche in qualche “night” per conoscere l’ambiente e controllare senza darlo a vedere. Si sedeva, volgeva sguardi dappertutto e usciva. A Catanzaro di notte trovava tanti gatti.
Mi ospitò a casa sua, dove guardando la libreria, notai “Onora il padre” , di Giancarlo De Cataldo, che lessi in cinque giorni e libri di Enzo Biagi. Il giorno dell’intervista ricevette la visita di una vicequestora simpatica, carina, che assistette a domande e risposte. Mi parlò delle operazioni che aveva condotto, dei “boss” che aveva conosciuto e interrogato, dei gregari, delle mezze maniche, con una memoria limpida e senza enfasi. Quando gli chiesi di fare i nomi delle persone di cui parlava ebbi la stessa risposta che mi aveva dato Mario Nardone: “Niente nomi, perché non è giusto metterli sempre sui giornali dopo anni dal reato compiuto: tra l’altro, possono essersi rieducati, avere mogli e figli che lavorano o studiano”.
Vito era un poliziotto inappuntabile e nei suoi interrogatori usava solo la forza dell’intelligenza. Mi raccontò che la moglie di un rapinatore si presentò in questura e dopo aver bussato alla porta del suo ufficio mise sulla scrivania una penna nuova, ma di poche lire. Lui la guardò senza fiatare e lei: “Le serva per scrivere verbali meno duri”, e uscì. Plantone incaricò l’agente di seguirla e restituirle la penna.
Ne aveva, di fatti da raccontare. Come la furibonda sparatoria di viale Argonne, con il bilancio di due morti. Le auto interessante si rincorsero per un chilometro da via Negroli a piazzale Susa. Appartenevamo al commando che il mese prima aveva tentato di uccidere in via Pisacane uno del “clan” di Luciano Liggio. Un mezzogiorno di fuoco.
Vito Plantone era arrivato in Lombardia tempo prima del famoso conflitto a fuoco tra la banda Cavallero e la polizia. Era il ‘67. Assegnato a dirigere la sezione antirapine, dopo una telefonata da Roma, tese una trappola a un gruppo di “duristi” (rapinatori molto determinati) e li mise nel sacco in via Palmanova, dopo un conflitto a fuoco iniziato dai banditi. Dopo una breve sosta mi disse: “Chi fa questo lavoro non può che essere umano”. E aggiunse: “La differenza fra un poliziotto e gli altri funzionari dello Stato è che il primo ha da fare con le persone e le loro storie; i secondi con i fascicoli”.
Plantone era un uomo saggio. Amante dell’arte e dei canarini (nel suo studio di via Poma aveva una voliera) e della caccia, che a volte praticava con il maresciallo Oscuri, che andava anche in Africa, in Jugoslavia… E adorava la buona cucina. Grazie a lui conobbi la “‘nduria” e le cicerchie Dei cibi preferiti poteva raccontare la storia; e anche quella “d’u diavulìcchie asquande”. E anche quella del suo paese con il borgo antico, che si portava nel cuore.
(foto: Vito Platone, a sinistra, con Arnaldo Giuliani del “Corriere della Sera”)